Alle radici della colpa

Sono giorni strani, giorni in cui, per potere andare avanti bisogna tornare indietro, con il sospetto che no, non è vero che “c’è tempo” come dice Fossati. Qui mi sa che non c’è colonna sonora che tenga. Al massimo, c’è la strofa in cui Max Gazzè canta: “il tempo non fa il suo dovere e a volte peggiora le cose”.

Antonella guarda fuori dal finestrino e non parla, non mi dice niente, ma entrambe stiamo pensando la stessa cosa: abbiamo faccine dipinte, le guanciotte rosse ed è lo stesso motivo ad averci portato qui, su questo autobus che corre sull’autostrada mentre fuori si alza un’altra mattinata di pioggia. Noi che abbiamo diviso una casa da studenti e i piatti sporchi, le copertine dei libri e i conti della bolletta, oggi proseguiamo diritte e spedite verso il passato: torniamo alle aule e alle lezioni, ai banchi, ai quaderni, ai dipartimenti ed alle segreterie. Non sembra normale a me che ho 25 anni, figuriamoci a lei che ne ha qualcuno in più. Eppure siamo qui per un preciso, chiarissimo scopo.

Abbiamo, al contempo, la stessa chiara e percepibile paura: quella di una visita alle rovine. Perchè sullo spazio largo che si è aperto nelle nostre vite, le fiamme che hanno annerito affumicato mandato in fumo progetti ed amicizie, noi non abbiamo costruito nulla: nessuna Domus Aurea è nata dal nostro personalissimo incendio di Roma.

Come dicevo qualche post più giù, quando non ottieni ciò che desideravi, quando quello che volevi non si realizza, la reazione più comune, una volta superato lo shock, è il cercare di capire il perchè. Magari te lo chiedono i tuoi genitori, magari sono le cose che mancano a porti l’interrogativo, oppure è l’ordine dei giorni stesso a farti riflettere: a me, ad esempio, ultimamente torna sempre in mente la poesia di Anna Achmatova, quella in cui la protagonista pare quasi attonita, sconcertata da un destino che si è rivelato non proprio amico: “tutto me lo prometteva – scrive – ed io non potevo non credere”.

Eccomi qui, dunque, a capire perchè sono ritornata al punto di partenza. Eppure sono certa di essermi mossa, di essere andata avanti e non senza sacrifici. Per essere ancora qui cosa non ho fatto? Quale parte dei miei progetti, del mio piano a prova di bomba, ho trascurato? La mia precarietà di cosa è il frutto?

Io e Antonella non parliamo più, dunque. Ma non è per lo scorno di dirci la verità, che ci siamo già raccontate per i primi 15 chilometri: abbiamo cominciato con la bocca dolce e le frasi che sanno di zucchero sui progetti che non si sono ancora realizzati  ma che “speriamo bene” e “se dio vuole” e abbiamo finito con la lingua tagliente d’aceto. Ora, invece, allo svincolo autostradale, abbiamo la necessità del silenzio: teniamo tutte e due gli occhi semichiusi in piccole fessure, un po’ come succede quando si sta controvento pure se stiamo chiuse e rattrappite sui sedili pieni di polvere di una corriera. Ciò significa che stiamo attente: stiamo cercando di capire, di delineare, di toccare con le mani l’istante esatto in cui siamo cadute nell’errore, per non ripeterlo. Una volta percepito il momento, sono sicura, lo prenderemo con le pinzette e con piglio medico e sorrisone esamineremo il nostro futuro. Andremo, questa volta alle radici della colpa, all’origine della vergogna che ci impedisce di usare aggettivi possessivi.

Commenti

  1. io penso una cosa che non so se è giusta ma mi capita quasi sempre: quando torno indietro mi dimentico il motivo che mi ha fatto tornare….Speriamo di no!

  2. ritornate all’università per imparare qualche cosa in più? Spero che racconterai quello che succede!