AutoreRaffaella R. Ferrè

Raffaella R. Ferrè, giornalista e scrittrice, è nata ad Eboli nel 1983.

Chiara Ferragni, il vestito è il messaggio. Ma quale?

Che durante la prima serata della settantatreesima edizione del Festival Sanremo uno dei maggiori temi di discussione non avrebbe riguardo né canzoni né cantanti, lo sapevamo. Chiara Ferragni nelle vesti di co-conduttrice la aspettavamo: chi la adora con trepidazione, senso di rivalsa e orgoglio, chi non l’ha in simpatia, al varco, con l’occhio attento alle possibili falle, errori, incrinature nello stile. Io, che ne ho sentimenti piani, la seguo sui social e ho visto pure “Unposted” trovandolo meglio di quanto pensavo, ero invece in attesa di una nuova puntata dello storytelling. Il primo assaggio l’ho avuto alla sua comparsa di spalle: una stola immacolata, all’apparenza trapuntata, che strizza l’occhio, temporaneamente, a tre cose insieme: il meteo di febbraio con l’ondata di freddo gelido, la tendenza moda 2023 che vuole capi spalla oversize, e il mio stare lì sul divano, davanti alla tivù, con una copertina sulle spalle. Quella di Chiara era anche un manifesto, e il messaggio in maiuscolo nero glitterato di due parole appena: PENSATI LIBERA. Lo scialle-manifesto che, come spiega la direttrice creativa di Dior Maria Grazia Chiuri, ha un’ispirazione importante e che rivendica l’atto politico dell’immaginazione per ricreare la realtà, appare però incline al farsi meme seguendo regole e principi dei social network: la frase può essere facilmente cancellata e rimpiazzata da altri messaggi, cosa regolarmente avvenuta. Emerge allora la sottotraccia narrativa: la differenza tra il pensarsi in una determinata maniera ed esserlo sul serio. 

Quando Chiara Ferragni, al primo cambio d’abito, torna sul palco con indosso una mise anatomica – tipologia già sfoggiata da Madame nel 2021 – dice, mentre Amadeus invita alla calma: Posso tranquillizzare tutti io? Non sono nuda, questo vestito non è trasparente. È un disegno del mio corpo” e anche “Il corpo di noi donne non deve mai generare odio o vergogna”. Ma la rassicurazione e negazione contenute nella prima frase sembrano contraddire la seconda: se non c’è di che imbarazzarsi e avere timore, se la ripugnanza e il rancore vanno doverosamente accantonati (e il pubblico che applaude e grida “sei bellissima” chiarisce la buona disposizione) che bisogno c’è di tranquillizzare e soprattutto, chi? Sul palco di Sanremo, si conferma allora l’atto più comunicativamente sovversivo il finto pancione di Loredana Berté nel 1986: in seguito lei stessa lo descrisse come “un costume pazzesco disegnato per me dal grande costumista Sabatelli. Per molti è stato un errore, ma per me no. Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è ancora più forte!”; ai tempi, si scatenò il dibattito e la polemica. Dalle pagine de La Stampa, Aldo Carotenuto descrisse l’episodio come “degno di un discorso psicologico”: “Una concorrente già famosa si è presentata ostentando una pancia che in maniera inequivocabile alludeva ad una gravidanza avanzata (…) C’è da chiedersi se la sua sconfitta sia dipesa non tanto da scarse capacità artistiche quanto piuttosto da una reazione emotiva del pubblico che, non votandola, l’ha forse punita dell’incauto travestimento. Se la ragione della sconfitta è dipesa da questo particolare, ci potrebbero essere varie spiegazioni che affondano le radici nella dimensione più inconscia degli uomini”.

Pensando alla mise di Chiara Ferragni, mi chiedo: se il disegno non fosse quello del suo corpo, ma del mio dopo un anno di tiroide impazzita e varie ed eventuali, se fosse il corpo di una di noi che non ha avuto tempo, modo, possibilità di un’estetista, se pensandoci libere non avessimo problemi o vergogne o imbarazzi nel mostrarlo, sarebbe ben accolto uguale da chi guarda? Mi torna in mente un verso di “The Armpit Song” (La canzone dell’ascella) di Siwan Clark che dice: “A volte penso di poter conquistare il mondo, ma prima… Oddio, devo sfoltire le sopracciglia. E, oddio, devo depilarmi le gambe. E devo fare la pulizia del viso e tonificare la pelle“. Come si combina, dunque, il pensarsi libera con il mostrarsi fintamente nuda ma aderente a questo genere di routine beauty care? Passare dal parrucchiere per un rapido aggiornamento della capigliatura alla tendenza del momento – un box bob già ricercatissimo – prevede la convalida di una delle battaglie settimanali se non quotidiane a cui una donna deve prendere parte, volente o meno: l’aspetto fisico. Chiara Ferragni appare allora più che affrancata, padrona. Niente di male, ma questo tipo di padronanza non è la diretta conseguenza della sicurezza in sé stessi, dell’indipendenza, della libertà o dell’autonomia; ha più a che fare con la capacità di acquisto servizi e tempo da dedicargli perché siano solo un piacere e non un ulteriore aggravio di cose da fare per incontrare il consenso di qualcuno o di se stesse, per nascondere l’umanità, la discendenza dalle scimmie, la testa e l’agenda presa da altre cose. Pensandoci libere, chiediamoci: saremo mai libere, per un giorno e in pubblico, di essere fuori moda e fuori dai canoni vigenti senza odiarci o essere odiate, senza dover tranquillizzare nessuno? Ferragni indossa ancora un abito degno di nota: quello che lei stessa, sui canali social, presenta ora come il vestito contro l’odio, mostrando però il dito medio. La didascalia dice: “Con questo abito peplo portiamo sul palco del teatro Ariston alcune delle critiche rivolte a Chiara sul suo aspetto, sul suo corpo e soprattutto sulla sua libertà di sentirsi donna oltre che mamma. Le frasi di disprezzo ricamate in perle nere sono le vere offese che ogni giorno gli haters rivolgono alle sue foto”.

Per Chiara Ferragni il vestito è il messaggio e paradossalmente è più forte, c’è più da dire e di che ragionare di quanto succede con il monologo. La lettera a se stessa bambina, in cui la parola insicurezza ricorre più e più volte, riassumibile in “non temere, è andato/andrà tutto bene” ci dice principalmente due cose: la prima, che Ferragni è consapevole del target a cui si rivolge e che ricambia con affetto; la seconda, che è una giovane donna di successo e nel corso degli anni si è conquistata affermazione, attenzione e consenso da parte del pubblico, ma la notorietà in bene o in male che l’ha portata sul palco del festival l’ha raggiunta proprio perché la sua figura aderisce a certi schemi, risponde ad altri. Sa le regole del gioco, insomma, e fossero anche solo quelle della moda e della comunicazione, le rispetta anche quando vorrebbe sovvertirle. 

Cliffhanger

Venne fuori che per vivere avevamo bisogno di soldi, venne fuori così, una mattina che era luglio. Luglio, a casa nostra, era un mese come un altro, non fosse stato per la palatale della gl finale manco ce ne saremmo accorti. Abitavamo nel sottotetto, noi sentivamo caldo a cominciare dal mese di marzo, non portavamo la canottiera dal dicembre millenovecentottantanove.Personalmente avevo il timore del primo sole, quando al Tg2 facevano i servizi sulla primavera imminente io prendevo il telecomando e giravo su Forum. Mi rassicuravano i lineamenti impietriti di Santi Licheri, la giustizia fredda e lucida come lama di coltello. Quando richiamava l’ordine nello studio televisivo battendo tre volte il martelletto sul piano rialzato era di nuovo gennaio.

Se mio padre era a casa, cambiare canale diventava un’operazione complessa. Il telecomando stava libero da impedimenti sulla tovaglia, ma una forza nera a cui non sapevo dare nome me ne impediva l’uso. Mi dispiaceva, forse, distrarre quell’uomo dai suoi sogni. Costume e Società rappresentava, per lui, l’ultima prova dell’esistenza del socialismo. Lo proiettava indietro nel tempo, gli faceva le spalle più dritte, i denti mossi leggeri e voraci sul pane e salame che stavamo mangiando. Avevamo contato quattro fette a testa, lui riusciva sempre a rubarne un paio dal piatto di mio fratello. Non si nascondeva neanche più, si giustificava pure, dicendo che i tempi stavano per cambiare e lui aveva bisogno di mantenersi fresco e tosto, e in attesa. Solo quando Luciano Onder ci informava dei rischi del colesterolo e dell’esigenza di una dieta ricca di frutta e verdura di stagione, la facoltà di usare il telecomando era di nuovo mia. Ricominciavo a respirare, schiacchiavo i tasti di fretta, a riparare il danno inferto al mio sistema di refrigerazione. Se Santi Licheri s’era già ritirato per deliberare, ero, forse, ancora in tempo per l’ultimo cliffhanger di Beautiful.

Il cliffhanger sarebbe la scena finale, non so se l’avete presente tutti: è quell’inquadratura in primo piano, in cui il protagonista sta per dire qualcosa, o fare qualcosa, apre la bocca e muove il braccio, ma a finale non fa e non dice niente e lo schermo si fa nero che avreste voglia di buttarci contro una pantofola. La puntata si chiude sul dramma inenarrabile dell’indecisione. La volta successiva ritrovate il personaggio fermo, bloccato come se avesse avuto un ictus. Per sapere cosa gli è successo, dovrete aspettare ancora un paio di giorni, intervallati dalle indecisioni di altri e dai loro repentini cambi d’umore. Dopo le prime venti puntate imparerete la lezione, saprete tenere il conto delle questioni appese come panni ad asciugare e apprezzerete il cliffhanger come il limite più sincero tra ciò che è e ciò che è possibile. L’attimo zero in cui le probabilità vi ruotano intorno, e i sentimenti degli attori coinvolti sono forza motrice di cui vi partecipate: siete Brooke e Ridge, siete Nick Marone, e non sapete chi è vostro figlio. Siete Amber e partorite nel deserto, Rick non arriverà in tempo, il bambino avrà la pelle bianca?

Beautiful era arrivato alla 3234esima puntata. Avevo cominciato a guardarlo assieme a mia nonna e sullo schermo Taylor saliva al cielo, vittima di una malattia fulminante, contagiata dal barbone che aveva trovato all’angolo della strada. Avevamo visto Taylor farsi gialla d’itterizia e poi bianca di morte certa, e poi nerissima sotto gli occhi, e ancora l’avevamo vista uscire e rientrare dal reparto di terapia intensiva, ricoverata e poi dimessa. Ed era, poi, ascesa al cielo e Gesù le aveva mostrato i dettagli del suo funerale montati veloce come in un videoclip, lei aveva visto suo marito piangere e aveva, infine, compreso il suo grande amore, quindi era ridiscesa in terra per un ultimo bacio ed lì era rimasta a metà, ferma nell’ictus del colpo di scena. Più o meno a metà dell’infermità di Taylor, s’era ammalata anche mia nonna. L’avevamo portata in ospedale, i medici le avevano fatto certe analisi e tenuta una notte in osservazione. Poi l’avevano dimessa e detto di ritornare dopo un paio di giorni. Nonna s’era impressionata. Mangiava con la testa bassa, china sul piatto di pastina tempesta, gli occhi lucidi riflessi tra i filamenti acquosi del burro. La faccenda del Day Hospital non l’aveva capita bene, e mentre salivamo la strada ripida che portava all’accettazione aveva, infine, tirato mio padre per la manica della giacca e gli aveva detto, fra le lacrime: «Robbè, però nun facimm comm’ a Taylòr».

In Beautiful le case avevano soffitti alti e piscina: io mi rinfrescavo il cervelletto nelle vernici pastello e crema, mi mettevo a mollo nei dialoghi sciacquati, e sulle emozioni elementari come l’acqua io ridevo giuliva, anticipando drammi e matrimoni. Ballavo sulla musica della sigla mentre toglievo la tavola avendo cura di rovesciare le molliche di pane raccolte nella tovaglia direttamente nel balcone della signora sotto a noi. Quel luglio Cristina Aguilera spiegava alla popolazione maschile che lei era un genio nella lampada e che bisognava strofinarla per bene in certi punti: io continuavo a scutuliare il mesale sul balcone della nostra vicina, mio padre continuava a fregarsi pezzi di mangiare dai piatti degli altri. Adesso eravamo passati al formaggio Brigante. Il formaggio Brigante andava bene preso dal frigorifero e mangiato sulla lama del coltello, squagliato nella padella con sopra una foglia di limone e con le croste ci facevi il brodo per gli spaghettini spezzati. Certe volte poteva esser utile anche per azzeccare la nota della spesa sul frigorifero. Aderiva bene alla nostra condizione liquefatta, mentre ci aggiravamo per casa strisciandoci lungo i muri come cani, ed era in offerta speciale al supermercato nuovo.

Mio padre mi aveva sospinto oltre le porte scorrevoli come fosse stato un rito di iniziazione. Mio fratello troppo piccolo, lui troppo fresco e teso, mia nonna morta senza sapere che Taylor era, infine, tornata a nuova vita, s’era sposata con un principe arabo, poi con Ridge, poi con Thorne, poi con Dominique Marone. Restavo io. Il formaggio Brigante gli aveva dato l’indicazione, mi spiegò: era entrato per l’offerta speciale ed aveva visto il cartello con su scritto: “cercasi personale”. «Per vivere abbiamo bisogno di soldi» ripeteva, ed era come un mantra detto senza convinzione, giocando d’astuzia con Dio come se le parole fossero più importanti delle intenzioni, ed eravamo già davanti al bancone dei surgelati. Mi stava partecipando di una condanna, dalla quale aveva preso le distanze a fine giugno. Ora stava di spalle, con le mani nel frigo a cercare il getto di aria fredda. Fossi stata già ragazza di supermercato avrei pensato stesse rubando, ma ero ancora sua figlia e appena conscia della verità su cui reggeva l’equilibrio cosmico.

Il conto era: 250mila lire al mese, domenica chiuso, straordinario il martedì durante la chiusura ché bisognava scaricare i camion che arrivavano dal distributore centrale a rifocillare il mostro periferico. Il supermercato avrebbe dovuto avere un nome come gli altri, comune e riassuntivo come un farmaco, ma il proprietario l’aveva voluto chiamare col nome del futuro che viene, Supermarket 2000. Ero sicura che il formaggio Brigante fosse stato, in realtà, solo una scusa. La ragione della mia presenza in quel luogo e, prima di me, della presenza di mio padre, stava tutta in quelle quattro cifre che, a leggerle, parevano già soldi. Duemila. Mio padre non pensava più in lire, pensava in euro, come aveva detto Costume e Società. Gli era semplice astrarre concetti su cose che non possedeva, era un uomo fantasioso, ricco d’invettiva nel cercare le cose che ci mancavano, nel creare esigenze di cui non avremmo mai sentito il bisogno se lui non ce ne avesse partecipato. Ogni suo desiderio teneva in sé la forma della prossima necessità, all’esaurimento del primo avevamo già una nuova emergenza.

La cosa peggiore del lavoro al Supermarket 2000 non era il camice di tela dura e pesante, quello lo aggiravo praticamente spogliandomi nel cessetto, con la consapevolezza che nel caso fosse partito un bottone a pressione mi sarei trovata nuda nel bel mezzo della spesa delle famiglie del primo pomeriggio. Il vero danno erano le buste di latte fresco, da un litro, da mezzo litro. In pieno luglio, arrivavano talmente fredde da farmi gelare le nocche e i polpastrelli. Stavano in certe cassette azzurre e sagomate, ognuna incastrata nella propria celletta. La superficie liquida e gelata che le copriva le rendeva scivolose, inafferrabili come pescetti. Erano a centinaia, ed erano il primo lavoro della mattina. Quando finivo il sangue mi usciva dai lati delle unghie mangiate, raggrumito come smalto seccato male.

Di quel periodo mi ricordo che mi chiudevo nel cessetto a fumare. S’attaccava una ventola che faceva talmente tanto rumore da farmi dimenticare dov’ero e pure il resto della gente ferma davanti ai risotti già pronti, dadi, brodo granulare, pasta mista, pasta lunga, mezzani, occhi di lupo, trofie, le regionali, le tipiche, panna montata, panna leggera, panna vegetale, e poi nel corridoio appresso, yogurt e birre, cocacole e cereali. Avrei potuto essere ovunque, ero nel cesso di una discoteca, nel cesso di un vagone di treno, nel cesso di un aereo. Ero in una scatola del tempo, con la ventola dell’aria attaccata. All’uscita avrei trovato Il Cairo.

La gente ci metteva un casino di tempo a scegliere cosa mangiare. La maggior parte guardava poco i prezzi mentre caricava il carrello di bibite ipocaloriche dissetanti al sapore di mirtillo nero e pompelmo rosé. Cercava il risparmio altrove, sull’ammorbidente e sulla candeggina, sull’ammoniaca per lavare i pavimenti. S’accontentavano di panni bucati e piastrelle maleodoranti, in cambio di uno stomaco griffato. Mi chiudevo nel cessetto anche a mangiare: mangiavo pezzetti di pane rubati da sotto al bancone mentre sistemavo le panelle paesane e le foccacce calde, e certi rustici da gran ricevimento; mangiavo snack con le noccioline e il caramello, stando attenta a sentirmi il fiato prima di uscire, come quando uno fuma troppo e si ferma sul pianerottolo di casa. C’era un lungo reparto dedicato alle merendine: in quel caso non era necessario nascondersi. Salivo sullo scaletto con la scusa di riordinare, su, fino all’ultimo gradino perché io non sono granché alta, e portavo con me la confezione prescelta, all’ultimo ripiano. Passavo ore a scegliere il dolce di produzione industriale che sarebbe asceso con me in paradiso. Passavo dai cuor di mela alle gocciole, alle crostatine ad una serie di biscottini senza marca al cocco. Il pomeriggio alzavo cassette d’acqua sulle spalle, e coca-cole e aranciate, maledicevo gli avventori che le avrebbero caricate nel carrello e trascinate fino alla macchina nel parcheggio.

Il nostro magazzino era il garage, per entrarci bisognava girare l’intero isolato. I primi tempi ci andavo con paura, poi anche la tensione si era ammorbidita, stremata dall’aria condizionata. Ormai ci andavo per noia quando mi scocciavo di chiudermi nel cessetto. Accatastavo cassette vuote e imballaggi ed era, allora, il momento per accendersi la diana senza il rumore della ventola, il momento in cui giocavo a fare la sedicenne che torna dalla piscina. Le luci del garage si accendevano l’una dopo l’altra, in un giro di do al neon. Tornavo a fottermi di paura ma ero attratta, a finale, dalla possibilità di un colpo al cuore, e come in Beautiful, al minimo rumore trattenevo estatica il respiro. Primo piano, zoom, fine della puntata. Non volevo sapere se si trattava di un topo, di un ladro o anche del padrone venuto a cazziarmi dopo aver trovato una confezione di crostatine orribilmente sventrata. Ma alla fine seppi che era Davide.

L’avevano assunto a maggio e la settimana prima che arrivassi io Davide era sparito, scomparso assieme al camice e al cappellino con su disegnato un porcello ridente. Sua madre era venuta a cercarlo nel piazzale quando la sera non l’aveva visto rientrare, ma aveva trovato solo le saracinesche chiuse e le cassette vuote della carne e del latte. Era tornata il giorno appresso, ma di Davide nemmeno l’ombra. La sua sparizione era stata la ragione del mio arrivo, ma il suo ritorno non aveva messo in discussione la mia presenza. Adesso scendere nel magazzino era divertente, perché si poteva fare con i carrelli alti mandati dal distributore: io davanti a tenere dritta la traiettoria sulla discesa, Davide dietro ad indirizzarmi nelle curve. Avevamo sviluppato, in pochi giorni, una buona economia di coppia. Facevamo a turno anche per mangiare le fiesta. Ci sentivamo l’alito al gusto di kinder delice. Fumavamo senza ventola nascosti dietro alle cassette di reso della frutta. Tenevamo d’occhio anche i clienti, nel caso avessero avuto l’aria sospetta.

Nel cessetto ormai andavo solo a riempire i secchi d’acqua, quando, a chiusura bisognava passare la pezza a terra, veloce e dritta nei corridoi come nuotatori nelle corsie. Andavo nel reparto detersivi e sceglievo il miglior profumo possibile per i pavimenti lerci, perché erano casa mia e casa di Davide, in quel luglio. Ero ritornata a vestirmi. Sotto il camice del supermercato avevo aggiunto strati sottili di cotone, perché lui non mi pensasse né facile e né troppo libera, ma solo vicina, e prossima. Me con la distanza necessaria. Sceglievamo con cura i jeans e le magliette, noi non si usciva il sabato sera nella piazza principale ma la mattina al Supermarket 2000. Ci sentivamo anche fortunati, probabilmente, d’incontrarci in campo neutro. E quando non avremmo avuto più nulla da dirci avremmo avuto birre da prezzare e anche yogurt scaduti da nascondere nelle ultime file del banco frigo.

Quando fu fine mese mio padre venne a prendermi fuori al supermercato. Mi fece brevi domande circostanziate sul mio stipendio e sul mio lavoro. Soppesò bene le mie parole e alla fine considerò che quei soldi erano abbastanza per un altro mese di pane e salame. Che avevo fatto il mio, e che per quell’estate sarebbe andato tutto bene. Che potevo ritenermi libera. Disse proprio così, ed io mi sentii solo libera di tornare a sudare ai lati del collo. Il giorno appresso non mi alzai dal letto. E nemmeno quello dopo. Stavo immobile mentre mio fratello giocava con Action Man, il più grande degli eroi. Quando smetteva di giocare e usciva dalla stanza mi voltavo di schiena, pancia sotto.

Faceva caldo da volersi togliere la pelle di dosso, metterla a raffreddare nel congelatore. In quei momenti rimpiangevo anche le buste di latte fresco, soprattutto i mezzo litro, piccoli e maneggevoli nelle mie mani. Del Supermarket 2000 non avevo più avuto notizie se non una brochure pubblicitaria nella cassetta della posta, ma sapevo per certo che mio padre aveva smesso di andarci, il vizio dell’amore per le offerte speciali lo portava lontano dai porti sicuri, sempre bisognoso di pelate Fontanella a prezzi stracciati. A Davide pensavo molto. Me lo immaginavo alle prese con le panelle di Valva. Con le signore anziane che ci mettevano secoli a contare le cinquanta lire. Coi capelli senza gel, il cappellino con il porco. Lo sognavo anche, incastrato nei filtri dell’aria condizionata e congelato nella sottile patina di ghiaccio che teneva unite due confezioni di magnum double caramel. Chiuso nella confezione salva freschezza del carte d’or al cioccolato a latte. E poi nascosto, nei sotterranei del magazzino a far suonare le luci al neon.

 

Con questo racconto, nel 2010, vinsi il  Born to write, sezione narrativa. Il premio nasceva a Parma nell’ambito di Italia Creativa, progetto per il sostegno e la promozione della giovane creatività italiana a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri in collaborazione con l’ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani e il GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani. In giuria c’erano autori come Diego De Silva e critici come Fulvio Panzeri. Il racconto è incluso nella raccolta “30 secondi d’universo” edita da Marcos y Marcos nel giugno di quello stesso anno, ma giacché oggi mi pare introvabile, lo condivido qui. Enjoy. 

La Fase2 è come il mantenimento della dieta.

Quando lo sai  ma fai finta di no che se non stai attentissima riprenderai buona parte dei chili che hai perso.

E dunque, la quarantena è finita. Forse. Pare.
Sicuro è finito il lockdown.

Avevo promesso, a me stessa prima che ad altri, che quando questo giorno sarebbe arrivato, sarebbero dovuti venire a schiodarmi da terra e la terra era quella di Piazza Bellini, il mio ufficio emotivo, luogo che frequento con successo da 10 anni e anche di più. Quando dico con successo intendo che posso chiedere il rifornimento di noccioline tre volte prima che mi guardino male, che quel luogo sopravvive a tutte le versioni di me stessa in compagnia di altri che gli ho sottoposto, che nonostante sia la scenografia di passati vari ed eventuali

– la festa per l’ultimo dei miei vent’anni, quella per il primo dei trenta, svariate immagini di me alcolica dondolante sui tacchi con un vestitino blu elettrico di Zara che oggi mi fermerebbe la circolazione delle gambe, argomenti e topic importantissimi che pareva proprio potessero essere affrontati solo lì, con un calice di bianco e poi un altro e un altro ancora e, prima ancora, quando il mio stomaco era ancora in grado di reggerlo, una birra allungata con il Southern Comfort, ero specialista, adesso non mi ricordo più se la birra a cui aggiungere tale whiskey è meglio rossa o chiara –

insomma, nonostante tutto questo, a Piazza Bellini resta ancora spazio per il futuro, per pensare e pensarmi felice,  nell’accezione che preferisco e cioè: brilla e impegnatissima, in un giorno tutto da venire e su cui non ho alcun programma. Una possibilità: me che vivo senza farmi il problema di come, con chi. Senza chiedermi se, tra un anno o due, quella persona o io stessa, ci saremo ancora. Perché c’è la piazza, c’è la città, c’è da berci su, e mi basta.

Adesso, a me piace, e anche molto, fare piani. Davvero. La cosa più tosta della quarantena è stata questa: non potermi figurare uno scenario e un obiettivo verso cui dirigere le mie azioni. L’ho detto, dicevo “quando sarà finito, dovrete venire a schiodarmi da terra”, ma quel quando non aveva coordinate, lo immaginavo sospeso, come sono sospese tutte le cose che riguardano il domani senza una data reale.

Tecnicamente, quel domani è arrivato, quel domani è oggi. E potrei onorarlo, cominciare subito, inserirlo in agenda, mettermi prima nello stato d’animo e poi nei vestiti adatti.

Immaginate: biondina sul margine estremo dello slargo, dirimpetto al conservatorio, pronta a fare non notte ma almeno tardo pomeriggio. Sola, in compagnia, che importa.
C’è Napoli, c’è la piazza, c’è gente che va e viene, passeggia, si ferma, compra sigarette accendini cartine, si allunga verso Port’Alba, aspetta l’arrivo di qualcuno che è in ritardo, chiama a telefono di spalle alle mura greche, ordina, da bere soprattutto.

Non so se è davvero così.

Questo tempo che pareva non dover venire mai, mi pare sia venuto troppo presto, troppo in fretta.

È in anticipo, non solo sui miei desideri, ma sulla mia incoscienza.

Non dico che avrei preferito continuare con la paura consapevole tremenda della Fase1, no. Ma sui compromessi responsabili della Fase2 non so se sono altrettanto brava.

È come con la dieta, il mangiare sano, l’andare in palestra, lo smettere di fumare o di bere superalcolici, il “farla finita con qualcuno o qualcosa”: quando inizi, lo fai motivata, di solito sconvolta, da una qualche improvvisa rivelazione su te stesso e cioè che se continui così finisci male. Allora ti impegni, soprattutto a negarti certe cose per il tuo stesso bene, a volte pagando qualcuno che dica “no” per te quando i tuoi “no” cominciano a vacillare. E i risultati arrivano, perché quelli arrivano quasi sempre.

Il problema è mantenerli.
Il problema è trovare una mediazione.
Il problema è il momento in cui sta a te.
La fase 2 è questo. Sta a me, sta a noi.

Non sono così certa che questo impegno coincida con me che mollo la presa della coscienza, mi lascio andare, mi occupo di facezie piccole, ordino un calice di qualcosa, rido e, finalmente, finalmente, non mi chiedo, non mi interessa, non voglio sapere cosa sarà.