AutoreRaffaella R. Ferrè

Raffaella R. Ferrè, giornalista e scrittrice, è nata ad Eboli nel 1983.

La cosa che dico a te oggi

Oggi avresti compiuto 65 anni e lungi dal sentirti un povero vecchio, per ribellione al mondo che ti ha sempre voluto adulto troppo presto, ne avresti dimostrato al solito almeno 50 di meno, con tutto ciò che questo significa.
Non sono solo cose belle, sai?
Forse ti saresti fatto la barba per l’occasione, è molto probabile, ma ci hai fatto caso? I rimproveri vari sono finiti, perché sì, sei brutto senza barba ma è peggio senza baffi, quindi meglio puntare a perdere solo l’accettabile.
Forse avresti preso un giorno di ferie per andare a pesca giù al fiume (la camicia militare, mia, gli stivali pieni di fango sul pavimento appena lavato, tuoi) o solo a far la spesa.
O forse no. Forse un pensiero t’avrebbe rovinato i festeggiamenti al solito, – un pensiero mai tuo, un pensiero che viene sempre da fuori come una corrente cattiva – e niente barba, niente pesca, niente spesa: oggi si manda affanculo il mondo, ché il mondo un po’ se lo merita.
E che con danni, se di quel mondo facevo parte anch’io.

L’ipotesi meno accettabile, comunque, sei tu che nel giorno dei tuoi 65 anni soffri in un letto – che sia d’ospedale o di casa, è uguale – perché vuoi dormire ma non riesci, perché vuoi parlare ma non ce la fai, perché vuoi sentire e non senti niente e perché vuoi respirare, ma la mascherina dell’ossigeno ti dà troppo fastidio comunque.
Le tue parole, attraverso di lei, poi, sono sempre le stesse, sono quelle che ti ho sentito pronunciare sul serio.
Erano le ultime e l’ho capito subito.
Le ricordo ancora.
È facile, è una sola.
È l’unica che riuscivi a dire.
È Basta.
E a pensarci, che bella dichiarazione prima di andarsene, no? Dire alla vita che ti lascia che sei tu che non ne vuoi più sapere. Basta. Hai fatto bene.

Certo, forse non era il messaggio più appropriato da lasciare alla me trentenne – la me trentenne come in un gioco di specchi se l’è sentito dire da chiunque -, ma ho imparato ad apprezzare anche quello, anche alla luce del suo contrario. Il suo contrario è Forza! ed è sempre stata parola mia più di altre, è sempre stato quello che io dicevo a te e anche a me stessa e agli altri.

Forza! Basta!

Ma la malattia è stata la prima possibilità che ti dava il mondo di vedere riconosciuto il tuo dolore, e la morte è stato il tuo più riuscito vaffanculo, quindi alla fine, sai che ti dico: va bene, va bene ogni cosa se è a tuo vantaggio. Voglio che lo sia, anche se significa non averti qui. E quindi basta.

E quindi oggi (ma già da un po’) quello che vedo se ti penso, quello che sento se ti penso, be’, mio caro: sei tu che ridi, tu che trovi un modo anche scemo per farlo, uno qualsiasi. Me ne vengono in mente almeno una decina, sai, e un paio comportano la presenza di un gatto, forse un annedoto su quella volta che stavi in collegio e per il tuo compleanno – quanti anni avevi allora, 7 o 8? – era venuto un tuo zio – non ti ricordi più il nome, lo so -, t’aveva portato a pranzo fuori e avevi rischiato di mangiarne uno, spacciato per coniglio.

C’era il sole quel giorno o il cielo, come oggi, era una lastra di cementite bagnata, come portavi i capelli, l’hai presa bene sul serio come hai voluto fare intendere, quando hai imparato a raccontare i fatti della tua vita come uno scherzo della stessa, è questo che mi hai passato? Faccio domande senza più aspettarmi risposta, come vedi.

Il bello dell’assenza, se c’è un bello nell’assenza, è poter scegliere cosa vuoi ricordare. Non che il resto si cancelli, no, per niente. È che il resto non hai bisogno di tenerlo a mente, il resto lo sai sempre.
Sappiamo sempre troppe cose, no? Almeno su alcune ci vorrebbe un grande, gigantesco, pantagruelico punto interrogativo o almeno una passata di spugna, un giro in lavatrice, uno scossone alla memoria, come succede sugli autobus. O anche no. Non lo sapevo, ma ho scoperto che è un esercizio, la memoria. Non è semplice come andare in palestra o a correre, ma ci si avvicina. Tutto questo per dire che se oggi devo scegliere un pensiero, uno qualsiasi, e voglio che sia bello, mi curo che sia bello – e cristosantissimo, è una delle cose più difficili mai fatte – lo si deve a te e a te solo.
Mi hai dato un dolore, forse più di uno, ma mi hai sempre lasciato la cura. Sei stato papà anche nel modo in cui la tua morte mi ha insegnato che avevo ancora tanto da imparare nella vita. E sei papà anche nel modo in cui manchi. Nessuno ti aveva insegnato cosa e come, e guarda un po’ che hai creato: me che davanti a questa giornata non so se ridere o piangere e magari, be’, magari facciamo che entrambi, che ce ne fotte.

Auguri, padre*

*(padre pio, avrei aggiunto subito dopo)(ti avrei chiamato sicuro così, se certe cose non fossero mai accadute e ci fossimo sentiti a telefono oggi, me che arrivo solo nel pomeriggio, tu che vuoi venire a prendermi a metà strada, a piedi ma almeno dai una mano con le borse).

Aidonuannaueì

Voglio vendicare una generazione intera dicendo che il problema nostro è avere visto Dawson’s Creek nel momento in cui si formano le coscienze. Civili siamo diventati, biondi, castano schiarito dal sole, e sinceri, pure troppo, incapaci di mantenere un cecio in bocca, ogni segreto è una rivelazione da fare nel momento meno indicato, postumo, e nel migliore dei casi siamo oggi dei logorroici convinti.

(Tutti i nostri sogni si realizzeranno presto o tardi, se ciò non accadrà non faremo in tempo ad accorgercene mica. Moriremo, esattamente come la compianta Jen Lindley che è il più completo personaggio della storia delle serie tv, e comunque che cosa ci fa alla reunion? Tornerà in spirito, come la nostra adolescenza? Argh).

 Turutururu, turutururu

Intervistare Franca Leosini, la donna delle interviste

Blazer d’ordinanza, chioma leonina meravigliosamente composita, il suo lessico va oltre il fondamentale, quel «vocabolario di base» analizzato dal GRADIT di Tullio De Mauro, al punto da avere un hashtag apposito: #dilloconFranca. I fan adorano le sue metafore, una delle immagini più in voga recita «Only Franca Leosini can judge me» ma non tutti sanno che ha cominciato intervistando Leonardo Sciascia. Pubblicata su l’Espresso nel 1974 con il titolo “Le zie di Sicilia”, l’inchiesta fece scalpore: lo scrittore denunciò, infatti, il ruolo della donna siciliana nella criminalità organizzata. Ma lei, napoletana, laureata in Lettere Moderne, ex collaboratrice all’Espresso, ex direttrice di Cosmopolitan, giornalista, autrice e conduttrice, a fare domande capaci di metter pace agli incubi delle cronache più nere ha continuato. E il suo modo di lavorare a dir poco scrupoloso, sembra partire proprio da un punto interrogativo: se potessimo leggere la storia segreta delle persone, saremmo capaci di giudicare nettamente i cattivi? Forse è per questo che è così amata. Posso farle qualche domanda?, chiedo. No, − risponde − non se mi dai del lei. E quindi, sto per dare del tu a Franca Leosini.

Alla presentazione dei palinsesti della Rai sono state annunciate le nuove puntate di “Storie Maledette”. La tua è un’estate di lavoro. Smetti mai? 

«La mia è sempre un’estate di lavoro, anzi, il mio impegno è di non smettere mai di lavorare. Ad esempio: tra qualche giorno andrò in vacanza, ma il primo strato della mia valigia è composto da atti processuali. Li leggo, li studio, sono importantissimi per me, compongono quel grande romanzo della vita da cui nasce “Storie Maledette”. Poi: ho la fortuna di fare un mestiere che amo, a maggior ragione non lo lascio mai! C’è la parte razionale che richiede studio e concentrazione, ma c’è anche quella umana, capace di sensibilità, mossa dalla passione. La passione è alla radice di ogni tipo di attività e io metto passione anche nel fare la maionese!».

un frame dalla puntata di Storie Maledette, 11 marzo 2018, in cui Franca intervista Sabrina Misseri

Ci sarà un momento in cui però lasci da parte la professione, spero. Come passi il tempo allora? 

«Ho una casetta a Capri. La mia estate è nel mio Sud: vivo a Roma, ma Napoli, anche se ci vengo poco, la sento mia, è la mia isola felice».

Quando torni a Napoli la trovi cambiata? 

«Il mio è un giudizio delegato: passo poco tempo in città, le feste comandate. Ma quando dico che sono napoletana allora parte sempre un coro di ammirazione: i miei colleghi, gli amici che la visitano, ne sono sempre entusiasti, mi dicono che hanno trovato Napoli più pulita, più ordinata di come se l’aspettavano. Noi napoletani siamo forse più critici, ma lo facciamo in virtù del nostro grande amore per la città».

E questo amore coincide con il primo ricordo estivo? 

«I ricordi dell’estate sono sempre legati al cuore e dunque sì. C’è una gita in barca con i miei genitori, ero una ragazzina: sono cose che poi la vita non ti ripropone più ma che restano, una sorta di fotogramma fisso. E forse, per me, il paradiso è una barca nel mare, sotto il sole».

In primavera sei stata al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia: Antonio Sofi ti ha intervistato a proposito del tuo metodo giornalistico e del racconto televisivo e hai detto di essere contraria alle repliche dei tuoi programmi. Eppure in estate farebbero piacere a tanti «leosiners», i tuoi fan, ne sono sicura.  

«I leosiners mi gratificano tantissimo: ho partecipato ad una conferenza da poco alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, ed erano tantissimi, saranno stati trecento. Tutto ciò mi fa così piacere. Ma sulle repliche non cambio idea e per fortuna la rete capisce e rispetta la mia scelta. È un fatto etico, c’è bisogno di attenzione: dopo “Storie Maledette” le cose mutano, la vita va avanti e cambia anche per chi è dietro le sbarre. Si modificano rapporti ed esistenze, alle volte sono io stessa a farlo. Trasmettere una replica può avere un impatto importante sulle persone che si trovano in carcere. Ci sono cose su internet, certo, ma guardarle lì nasce da una scelta, è diverso dal ritrovarsele sul teleschermo».

Hai spiegato che per te esistono tipologie diverse di delitti tra il Nord e il Sud dell’Italia. Da dove nasce questa convinzione? Lo pensi ancora o c’è un caso che ti ha fatto cambiare idea? 

«Sono ancora convinta che la lettura del nostro Paese potrebbe esser fatta partendo dalla storia dei delitti privati. Nel nostro Sud sfregiato da altri crimini, altri delitti, sono certa, ad esempio, che una storia come quella di Olindo e Rosa Bazzi non potrebbe accadere. Usandolo come una sineddoche, un delitto di questo genere a Napoli, la nostra amata città segnata da altre violenze, non lo immagino. C’è un tipo di appartenenza, c’è quella che io chiamo «vicoleria» ad incidere. Poi c’è un’altra cosa che ci dicono i dati».

Cioè? 

«Che a Nord ci sono più delitti di donne. A me viene l’orticaria al termine “femminicidio” quindi non lo uso, ma è laddove le donne si affrancano nell’ambito lavorativo, sono più indipendenti, hanno la capacità di scegliere il destino della coppia, che avvengono più violenze su di loro perché è questo che gli uomini non accettano. A Sud alle donne spetta ancora quel ruolo di mediazione. La cosa che si ritrova ovunque, invece, a Nord come a Sud, è la mal-educazione, intesa come mancanza di un’educazione culturale vera, forte. La violenza sulle donne secondo me si combatte oltre le leggi come quella sullo stalking che è un’ottima cosa, ma non è sufficiente: la cosa necessaria, in tutto il Paese, è educare dall’infanzia, a casa e tra i banchi. Parliamoci chiaro: ho potuto constatare che gli uomini violenti sono figli di un contesto violento. La famiglia allora è importante, ma ancora di più lo è la scuola: forse servirebbe un po’ di latino in meno e un po’ di educazione civica in più».

Hai diretto Cosmopolitan e ho letto che andasti via perché la linea americana sopravanzava quella italiana. Ti piace il modo in cui i media nostrani raccontano le donne oggi? 

«Io odio generalizzare, trovo che sia sempre un crimine: e dunque, ci sono giornalisti che le raccontano bene, altri che non lo fanno. Ma non mi piace nemmeno fare nomi, né da una parte né dall’altra: potrei dimenticare qualcuno».

C’è un sottogenere di gialli estivi che affollano le cronache, ne abbiamo uno ogni anno: da Garlasco nel 2007 a Sarah Scazzi nel 2010 fino a via Poma e Simonetta Cesaroni nel 1990, ti sei occupata di quel caso per “Ombre sul giallo”. C’è chi li chiama delitti d’agosto, avvengono proprio quando le città si svuotano in occasione delle vacanze. Cosa ne pensi? 

«I crimini si sono così moltiplicati che non credo si possa più parlare di delitti d’agosto: oggi c’è il delitto del giorno. La violenza è pane quotidiano, le storie di cui mi chiedi sono una memoria antica, con tutto il rispetto per le vittime. Oggi a segnare la nostra vita c’è molto altro, altroché delitti dell’estate».

Un’ultima domanda a proposito d’estate e delitti: sotto l’ombrellone leggi libri gialli? 

Ride. «Mettiamola così: leggo i libri che mi interessano. Amo il linguaggio, non il genere. Il giallo, detto così, per me non significa niente: ad interessarmi non è mai la trama ma il modo di raccontare. Poi, se penso ai miei autori preferiti, se penso a Truman Capote o a Emmanuel Carrère e a “L’avversario”, sì, mi rendo conto che possiamo parlare di gialli, ma è una cosa che viene dopo: per me l’importante sono le parole per dirlo. E questo sempre, tesoro*».

*Mi ha chiamata tesoro. Sì.

(Questa intervista è stata pubblicata dal quotidiano IL MATTINO nell’agosto 2016. La ripropongo qui perché non esiste un archivio online del giornale).

La prima volta che ho incontrato Franca Leosini e l’ho lasciata andare