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Bordello Story, se fosse possibile fare un film dal mio 2019

Qualche settimana fa ho rivisto “La meglio gioventù”, sostanzialmente perché avevo bisogno di ricondurre i miei drammi personali alla storia italiana mirabilmente interpretata da Luigi Lo Cascio.

(ciao Luigi Lo Cascio, il tuo sorriso nelle avversità mi tormenta dagli inizi del Duemila, insomma ormai quasi vent’anni).

La maggior parte dei miei contatti Facebook piangeva su Marriage Story, mi arrivavano messaggi pvt in cui mi si diceva che Scarlett Johansson mi somigliava molto in quella pellicola o il contario, io somigliavo molto a Scarlett Johansson in quella pellicola, probabilmente perché Scarlett Johansson ha un taglio di capelli orribile, indossa vestiti sformati color beige, ha idee confuse su se stessa e piange per tre quarti del film. A questo proposito: dire a qualcuno che assomiglia a Scarlett Johansson durante una crisi non è un gran complimento. Inoltre, ho visto il film e posso affermare che: 

a) i due sono dei principianti a livello di litigi, la loro scena madre è il mio pezzo di apertura;

Come sarebbero andate le cose con me.

b)avessi i soldi per prendere tutti gli aerei, pagare tutti gli avvocati e cambiare tutte le case che cambiano i protagonisti, ma quale crisi, seriamente: invece dei documenti per il divorzio, io avevo già messo in mano a mio marito il numero di una baby-sitter e poi una bella letterina che annunciava la mia partenza per due mesi alle Maldive pagati da lui. La lettera fa così, leggetela con la voce impostata ma incrinata dal pianto:

Caro amore mio, ti amo dalla prima volta che ti ho visto, probabilmente ti amerò per sempre. Ma. Ma hai fatto la palla. Le critiche sono l’unica cosa che ti viene spontanea e, per il resto, mi dispiace dirtelo, ma sei emotivamente stitico, infatti il film si chiude solo quando tu piangi mentre io lo faccio dall’inizio del film, cosa che trovo assai sessista: me l’avessero detto prima, t’avrei dato un bel calcio negli stinchi e via. Sai com’era bella una scena di me che ti prendo a calci in culo per tutto l’appartamento dicendo che è una mia idea per la tua performance teatrale? Comunque, mentre tu vedi un terapeuta, io ho urgente bisogno di bere latte di cocco da una noce di cocco, farmi di nuovo bionda, comprarmi anche un paio di tacchi che non hai idea e pareggiare il conto delle corna. Poi vediamo tutto il resto, intanto salutami Kramer contro Kramer nella versione for dummies, ci vediamo poi.

Dunque ho visto “La meglio gioventù” e passato quattro ore circa – era la versione ridotta su Amazon Prime – a piangere moltissimo. Piangere moltissimo per me significa lacrimare silenziosamente tirando su con il naso e cercando di non morire soffocata dal mio stesso muco (sì, fa un po’ schifo, ma non sono Chiara Ferragni, so di non “piangere in maniera carina” cit.)(Ho visto anche Unposted di Chiara Ferragni, sì, e lo trovo meglio di Marriage Story come trama e colonna sonora). Ho terminato la visione della serie capolavoro di Marco Tullio Giordana, la nostra versione dell’Heimat tedesco (tu che mi leggi e sai cos’è l’Heimat, esisti davvero? Inizio a dubitarne) e ho iniziato a ragionare sulla mia vita.

Sono terribilmente sensibile ai decenni. Ricordo ancora con terrore lo spot della Rai nel 1989, in cui si invitavano i gentili telespettatori a cambiare decennio insieme. Purtroppo non ho più sei anni, quindi non posso nascondermi sotto le coperte nella camera da letto di mia zia. In più c’è il fatto che l’anno di grazia 2019 ha fatto talmente schifo che certe volte mi sono fatta non schifo ma pietà da sola. Posso ricondurre il tutto a dinamiche storico-sociali-familiari, ma non ho le mie classiche, bellissime, serenissime, superzen illuminazioni serafiche sulla vita, quanto la consapevolezza fisica che la vita mi ha pigliato a calci in culo e se ho fatto qualche passo avanti è stato per l’onda d’urto. Perché non esiste, dunque, una trasposizione filmica? Scarlett Johansson in fondo è già lì pronta, basta farle crescere i capelli o metterle le extension, e stiamo apposto con la protagonista, i costumi e la congiuntivite.

BORDELLO STORY

Regia, soggetto e sceneggiatura di Raffaella R. Ferré

Il film comincia a gennaio 2019 con Scarlett e il marito, interpretato da Mark Ruffalo sullo stile Avengers Endgame, che cambiano casa. Sì, so che Mark Ruffalo in Avengers Endgame impersona l’Incredibile Hulk. Comunque, la casa è piena di luce, viene scelta soprattutto per questo: il modo in cui il sole si riflette sul bel pavimento in legno scuro assai rovinato, l’ombra rosa che ha la meglio nel pomeriggio; la casa è anche vuota e – finalmente – ha delle porte – ben 5 in luogo delle 2 presenti nella vecchia! – e forse per questo sembra immensa anche se non lo è. Arredarla prende circa 80 minuti di un film che ne dura 120, durante i quali i protagonisti non fanno altro che tentare di non uccidere la tizia di Ikea Afragola che gli fa da consulente. Poi si rassegnano, chiedono la consulenza online, Scarlett e il tizio in vivavoce dall’accento emiliano si intendono subito e, colpo di scena, le dà la notizia dell’esistenza di un mobiletto dalle magiche misure 30 di larghezza e 60 di profondità con cui completare una bellissima cucina mignon in materiale riciclato e non inquinanante ben prima che nascesse la moda dei Friday for Future. Foreshadowing su Scarlett che disegna con il CAD la cucina, tentando diversi stili: quello classico con anta Bobdyn in colore azzurro polvere che però fa troppo casa di Barbie e quindi viene scartato; quello moderno, anta Kungsbacka bianco non lucido per i pensili, nero non lucido per la base con carello in legno così può giocare a vincere Masterchef ogni volta che cucina. A sostegno della cosa, Scarlett indossa anche il grembiule del Pressure Test.

Qui una prova per esigenze di scena

La cosa si fa, però, pericolosa quando la donna inizia a sviluppare una singolare affezione per i nomi di ogni singolo componente del mobilio svedese, dalle tende a pacchetto Ringblomma a tutti gli Ursta che ammorbidiscono la chiusura dei cassetti, fino a maturare una certa affezione per la collezione Hemnes. Invece di tentare la scalata al colosso dell’arredamento scandinavo, Scarlett trova edificante punzecchiare suo marito sui quadri da appendere, che letto prendere, quale divano. L’unica cosa su cui concordano sono le librerie a tutt’altezza. Lei vorrebbe ridipingere una parete, chiedere ad un’amica vignettista bravissima di farci su una scritta – la più gettonata è “La vita è un varieté” e se tu che mi leggi conosci il verso successivo ti stimo, ma qui sono certa che esisti e la cosa non mi stupisce -; lui è invece nella fase minimalismo giapponese dopo Hiroshima, ergo le pareti restano spoglie se non per due lavagnette che vengono aggiornate settimanalmente da lei con i gessetti colorati: recano la lista della spesa, disegnini e frasette motivazionali. La cosa ha il suo culmine nel mese di aprile/maggio in cui avviene effettivamente il trasloco, condito dalle lacrime di lei per la casa che lascia (qui lo spin-off) e dalle bestemmie di lui per la quantità di roba accumulata in 7 anni e da impacchettare e trasportare con l’aiuto della ditta Papillon (riferimenti cinematografici a go-go) composta da un gentilissimo uomo di cui non ricordo il nome, forse Francesco, e il suo treruote. L’arredamento viene composto da una squadra di slavi capitanata da tale Adrian che, per mezza giornata, qualsiasi dubbio abbia, chiama “Signora” alla stessa identica maniera in cui chiamerebbe Gesù Cristo chiedendogli il perché della fame nel mondo. Scarlett non se la prende per la cosa, anzi, si appassiona al lavoro dei baldi giovani dell’est e alla fine Adrian la invita a fumare una sigaretta sul balcone. Il momento illuminante, è, infine, quando Scarlett va a comprare il bidet nuovo, ma giacché non dispone di auto, si carica nella macchina del negoziante insieme al suo nuovo amico.

Qui le foto dal set. Nella prima Scarlett dirige i lavori, nella seconda si ciba a terra perché non ci sono le sedie, nella terza compare il caro amico bidet, nella quarta Scarlett è molto felice di non si sa bene per cosa poiché era a lavoro (e quella una foto per mostrare ad un collega che finalmente disponeva di una scrivania e una porta da chiudersi alle spalle).

Il film potrebbe finire qui, con la prima notte in cui la coppia dorme nella casa nuova: è quella in cui trasmettono l’ultima puntata di Gomorra – La serie. Effettivamente i due dormono nella casa nuova per guardare l’ultima puntata di Gomorra – La serie. Nella prima casa, si erano decisi a trasferirsi per guardare la finale di Sanremo, quindi forse c’è un miglioramento o una morale, del tipo: vedi, le cose cambiano, cambia la scenografia dei palazzi fuori dalla finestra, ma noi no e teniamo botta ormai dal 2005 nonostante i palinsesti televisivi. Musica, precisamente Domenica di Coez – canzone che i due ascoltano molto – , e titoli di coda su lui che ordina la cena su Just Eat perché non hanno ancora consegnato il frigorifero.

THE END

Purtroppo però il 2019 non è un film con una sua durata e, potenza delle storie, un arco narrativo, ergo, la cosa continua, il racconto no. Ci sono poche cose con cui sono abbastanza in pace da poterle raccontare o verso cui ho maturato il distacco necessario per farne una storia e anche una risata. Scarlett dovrebbe vedersela con lo stress accumulato, i conti, i bordelli delle ultime cose, gli scatoloni da sistemare, tutto adeguatamente giustapposto al lavoro e a una situazione meteo inclemente fino al 7 di giugno. L’arrivo dell’estate non farebbe che complicare le cose, Scarlett si sentirebbe addosso pochissime energie e tantissimo da fare, senza sosta, mai. Alcune sono cose in copione e lì, come dire, anche se prende più paccheri di Rocky in Rocky 1-2-3 e 4 (Rocky si può vedere solo fino al numero 4), alla fine se la cava, deve cavarsela, anche quando i paccheri arrivano da persone da cui proprio non se lo aspettava. Altre cose invece no, altre cose vengono fuori dal nulla e cambiano improvvisamente il genere della pellicola, incendiandola nel caldo di agosto al Cardarelli, pure le cose da fare bruciano, insieme ai riferimenti cinematografici. Poi, sarà stato il cambio di temperatura, a un certo punto la paura si solidifica, Scarlett la vede, la sente, le si innesta sulla schiena in una forte discopatia che, le viene detto, potrebbe portarla alla zoppìa, alla paralisi, bisogna operare, forse, mo vediamo. Lei le tocca con mano – la schiena, le gambe e la paura – , e chiede finalmente la famosa mano che tutti si pregiano di volerle dare da anni. La mano che stringe alla fine è quella di un medico che le dà prima una cura da cavallo e le fa poi un’iniezione spinale di cortisone che non risolve il problema ma la rimette in piedi; la mano che tiene, alla fine, è la sua, per farsi i complimenti, più che altro, sulle saggissime decisioni che è capace di prendere (è ironico).

Nel 2019, oltre a quanto detto fin qui riducendolo ad una fiction, ho:

1) sfanculato una persona che mi ha rovinato le uniche due serate buone in 365 perché non l’avevo informata in diretta dell’aperitivo riuscito chissà come con un’altra persona e di cui era venuta a sapere perché aveva un profilo fake su Instagram (questo, portato nella versione filmica sarebbe un thriller meraviglioso);

2) lavorato senza sosta, mi pare bene, credo sia l’unica cosa che m’è riuscita;

3) dormito davvero credo 3 notti, me le ricordo perché mi svegliavo contenta la mattina, stupita di quanto mi sentissi sonnacchiosa e riposata;

4) pianto assai, sicuro più di Scarlett Johansson;

5) cucinato un botto, come se dovessi recuperare le settimane in cui, causa assenza suppellettili, non l’ho fatto.

6) inviato email e messaggi a tutti quelli che mi avevano detto di farlo, che c’erano sempre, avrebbero fatto qualsiasi cosa in caso di mia necessità, no matter what e quanto tempo è passato;

7) ritrovato il mio compagno fidato panico un pomeriggio su via Luca Giordano in cui non mi ricordavo più dov’ero e cosa stavo facendo;

8) apprezzato moltissimo chi, nonostante tutto, è stato capace di farmi ridere e sorridere, di sorprendermi, di preoccuparsi genuinamente per me (e cioè senza chiedere qualcosa subito dopo);

9) apprezzato ancora di più chi mi ha dato il braccio o mi ha raggiunto con i suoi piedi quando i miei non erano capaci.

10) Pensato e creduto fortissimo che voglio restare, anzi, tornare ad essere, una che parla in faccia, che dice le cose, che ha dolcezze e incazzature, invece di starmene muta e zitta da un canto.

Arrivo a questa fine anno cercando di riportare tutto in scala, dirmi che è solo un momento e non una vita intera, anche se, complice la fine del decennio, mi pare proprio così. La verità è che nel 2018 mi ero sentita finalmente responsabile di me stessa, mi ero detta che a nessuno tocca il compito di prendersi cura di te se tu per prima non lo fai, e mi ero rassegnata a prendermi la mia quota parte di merda, colpa e solitudine per come erano andate le cose nel 2017, nel 2016, nel 2015 e anche in parte del 2014, anno in cui la morte di mio padre dopo crudele malattia m’aveva portato a pensare che non potesse più succedermi niente di male, visto che il male era già successo e stava tutto da qualche parte nel mio cuore, come un cane nero, a mangiarselo. Invece, in questa prospettiva malamente dimenticata, il 2019 ha fatto da Armageddon: ho perso un’altra persona a me carissima, il cane è diventato lupo famelico e  per il 2020 il mio unico proposito sarebbe dormire per un paio di mesi con la tv che manda a palla Ocean’s Eleven, film di cui sono assai grata perché DIO SANTO, è puro intrattenimento e non piange nessuno, grazie Steven Soderbergh, ti farò una statua.

La verità è che ho una paura fottutissima di qualunque cosa mi aspetta e non lo dico per:

a) farmi consolare;

b) ricevere un qualche messaggio motivazionale; 

Lo dico perché è vero. E dire la verità, su me stessa, sulle cose e le situazioni che vivo, l’ho imparato nel 2019, è l’unica cosa che mi resta, forse perché non sopporto più le stronzate. Nel corso di questi ultimi 10 anni ho viaggiato molto per mezza Europa con una puntatina nel sud delle Americhe e anche da lì, che fossi su un battello nel Mar Baltico o nel cortile di un albergo di l’Havana, ho trovato il modo di fare una telefonata, inviare un messaggio a chi era dall’altra parte del mondo tenendo conto del fuso orario e non per fargli la palla, ma per fargli sentire il vento o la parlata spagnola. Nessuno ha ricambiato il favore, neppure quando il favore gli è stato chiesto. Vorrei che questo non meritasse un menzione, ma la merita: arrivo al 2020 con la consapevolezza che ho dato molto molto spazio e molto molto tempo e attenzione e cura a persone che erano, per me, la priorità, mentre io restavo e resto un’opzione. Non fa niente, però questo mi ha cambiato molto, e io avrei preferito restare com’ero.

Di questi tempi, dieci anni fa, avevo 26 anni, m’ero appena laureata, lavoravo in una tivù locale, portavo scaldamuscoli sopra gli stivali e gambe nude anche sul motorino. Credevo molto all’amicizia, all’amore, ai sogni e ai concetti astratti in generale. Credevo, ad esempio, che in carcere dovesse esserci un ufficio relazioni con il pubblico. Fa ridere? Rise molto la persona a cui lo dissi, stupendomi moltissimo. Ero così:

Ora sono così.

foto di Mariagiovanna Capone

Non so quanto e se sono cambiata fisicamente, magari non più di tanto. Il conto degli anni che ho è semplice, anche se me ne sento 100 di più. Odio dovermi mettere le scarpe perché la schiena mi fa assai male, ma quando le metto e decido di essere più forte del dolore, sono capace di fare chilometri prima di fermarmi. Resto una che va veloce, ma se ho maturato sarcasmo e cinismo, diplomazia all’occorrenza e capacità di parlare come se volessi prendere a calci qualcuno quando serve, l’ho fatto solo perché costretta da altri e dalle circostanze. In questi anni ho sempre sperato che, davanti al mio cuore esposto e squadernato, ci fosse qualcuno capace di mostrarmi il suo: a volte è successo, altre no. Io ho imparato a vivere e andare avanti in entrambi i casi, sempre buttando il cuore oltre l’ostacolo come se non mi servisse più. Stavolta sono rimasti solo loro, una serie infinita di buche e transenne e salti da fare: il mio cuore, chissà dove l’ho lanciato, sicuro avanti. Mi tocca raggiungerlo, mi sa, riprendermelo, ficcarmelo tra le costole e non lasciarlo più andare. E niente: ci vediamo lì, tu che mi leggi: ci conto.

Cose che ho imparato nel 2018

o anche

L’anno della bicicletta e altra roba utile soprattutto se

nel 2018 ti sei lanciata su una discesa da bendata

 

Non scrivevo un post da un botto e volevo scrivere un post da un botto. Cose di lavoro e di altre scritture. Poi mi sono accorta che il post che non scrivevo e quello che volevo scrivere era lo stesso, era quello sulla FINE DELL’ANNO.

(musica drammatica)

Ua! È finito l’anno?

Pare di sì. E pare anche che questo anno tostissimo che in certi svariati punti ha fatto proprio schifo, io l’ho adorato.
Non c’è un altro modo per dirlo: l’ho adorato il 2018, sì.
Anche se non ho fatto tutto quello che volevo.
Anche se non ci sono state tutte le cose che volevo.
Anche se ho avuto sempre la sensazione di non riuscire a mettere una scopa (mettere una scopa means vincere almeno una manche della classica partita a carte).
Anche se (al solito) mi è venuto più facile stare con la testa (e il cuore) tra le nuvole che con i piedi per terra.
Anche se a terra ci sono finita comunque e solo l’avere la testa e il cuore tra le nuvole mi ha evitato di spaccarmi il muso, il naso e permesso di tirarmi su. E se proprio non volevo guardare avanti perché avanti pare sempre che non ci sia granché e che si metta un piede nel vuoto, presa da moltissime paure – la mia sfida è sempre averle tutte, come le figurine, così le consumo, ci gioco, completo la raccolta – sono riuscita a guardare in alto.

E in alto ci ho trovato pezzetti di cielo.

Chiamalo poco, il cielo.

cielo fuori dalla mia stanza, 19 gennaio 2018, Budapest. Avrebbe nevicato di lì a poco.

Non vorrei sembrare troppo zen – se lo sembro mi frega comunque poco – ma per la prima volta dopo moooolto tempo – così tanto tempo che non mi ricordavo manco più com’era e se era sul serio mai accaduto prima –, nel 2018 il conto dei miei “Avrei dovuto fare” è andato in pari con i miei “Sono riuscita a fare”, a cui dopo un po’ si è aggiunto il “Guarda, riesco a farlo senza mani!”, come quando si risale in bicicletta dopo un lunghissimo periodo (questa è una cosa che non ho fatto, no, ma di strafacciarmi a Berlino non mi pareva il caso neppure stavolta).

A proposito di cieli, sono stata fortunata. Cielo sopra la mia testa, agosto 2018, Lustgarten, Berlino.

Ci sono stati, però, diversi momenti  in cui mi è sembrato che in bicicletta, senza mani, mi ci avesse fatto salire non la mia volontà o il mio sprezzo del pericolo, ma qualcos’altro, qualcun altro, magari qualcun altro di cui mi fidavo e che aveva avuto la cura di bendarmi prima di lanciarmi su una discesa con una bella pacca sulle spalle.

Adesso, le possibilità erano due:

a) fottermi di paura e strafacciarmi più o meno consapevolmente, bestemmiando l’universo mondo me stessa compresa

b) mettermi a cantare Unstoppable di Sia, soprattutto quando mi sono accorta che i freni non mi erano d’aiuto

La novità del 2018 è che, ho scelto la seconda. Perché?
Prima di tutto perché è Sia, che in questo anno ho chiamato Zia Sia (pur lontanissima e ignara ha fatto per me cose che solo un parente che ci tiene molto). Poi perché per un po’ di anni la percezione era stata il contrario e la paura quella di essere stoppabilissima da qualunque cosa, persona, animale, essere vegetale e transito di pianeti dell’intero sistema solare.

Pedala soffrendo come Coppi sul passo del Pordoi
e fingi di non notare che questa è una ciclette

questi erano stati gli insegnamenti since 2013

Nel 2018, da subito, è stato chiaro che dalla ciclette era saltato – o era stato fatto saltare – il fermo e i chiodi. Nella palestra in cui andavo un tempo, di fronte alla zona ciclette c’era una lunga vetrata: nel 2018, da subito, è stato chiaro che l’avevo metaforicamente sfondata. Fortunatamente la strada, sotto, era vuota. Che significa anche libera.

La cosa più importante che ho imparato nel 2018 è stata allora: tu metti i piedi sui pedali.
L’altra cosa più importante che ho imparato nel 2018 è stata: continua a pedalare.
L’altra cosa ancora, last but not least, è stata: se stai piena di metaforici taglietti sanguinolenti, punta i piedi a terra e cazzo, fermati. Togliti ‘sta benda, trova dei cerotti, trova del disinfettante, cerca una cartina, guardati intorno e prova a capire dove sei: è la direzione giusta? Ti piace quello che hai attorno? E se sei stanca, sei capace di riposarti? E se hai fame, riesci a dire a te stessa come faresti con un altro: mangia e bevi e dormi, prima di ripartire?

Adesso, che l’equilibrio sia nel bilanciare il movimento con lo stare fermi lo sapevo dai tempi della scuola di salsa cubana in una specie di scantinato rimesso a nuovo dietro Piazza Nazionale, ma quest’anno mi è sembrato di avere una specie di prova provata dei benefici della cosa: muoversi può fare spavento se si pensa a cosa e chi ci si lascia alle spalle quando ci si muove, soprattutto se quella cosa e quel chi, non puoi portarlo con te (magari con te non ci può e vuole venire e comunque non ne ha fatto alcuna menzione). Fermarsi, allora, può essere una condanna, la colpa di essere se stessi, così inamovibili sugli affetti da dimenticare il primo, il più richiesto, il più difficile, quello verso se stessi.

Alla fine del 2017 sono arrivata con una semi certezza tremenda, cioè quella di essere una persona orribile che meritava, per questo, cose orrende. Sentivo di aver sbagliato a esprimermi e di aver sbagliato a chiedere lumi. Sentivo di non aver il diritto di farlo – un po’ come canta il mio amato Morrissey in Bigmouth strikes again – . Sentivo che il mio tono, le mie parole, non importa quali, fossero di troppo. Ero convinta, in un certo senso lo sono ancora, che rimpiazzarmi fosse un fatto semplice e anche dovuto, anche per quelli che consideravo insostituibili. E infine, e questo lo immagino un fatto quasi consequenziale, che m’ero presa in giro da sola a pensare di poter far conto sull’attenzione di qualcuno, a meno di non presentare formale richiesta con marca da bollo ed essere messa in agenda come un appuntamento dal dentista. Sono pensieri brutti, sì. E anche non del tutto giustificati.

Però. Però in loro ho trovato la chiave per una grandissima libertà. La libertà del sapere che se sei una delusione per tutti, in fondo non devi rendere conto a nessuno. La libertà del provare, allora, a mettere in discussione non più gli altri (a cui non frega poi molto della tua messa in discussione ed è forse giusto così) ma sé stessi. Ho cominciato il 2018 provando a dare ragione e provando ad accettare, finalmente, motivazioni, parole e comportamenti di tutti quelli a cui tenevo. E se in alcuni casi questo significava non avere né motivazioni, né parole, né comportamenti ma solo silenzio e assenza, io li ho presi come un dono; se questo significava sentirsi addosso le colpe di alcuni gerarchi nazisti minori, se questo significava essere dipinta e trattata come una stronza, se questo significava anche lasciare andare – e avevo assai paura di scoprire che era proprio così – pur non mettendo alla porta nessuno, mi sono premurata di constatare che nessuno c’era e, infine, di chiuderla io la porta, almeno per non prendere (altro) freddo. Poi, come dire: alle porte si bussa e diversi hanno bussato. E le porte si aprono anche per uscire, e allora hai voglia: il 2018 è stato anche l’anno, il superanno, in cui ho ricominciato a farlo sul serio, perché ho smesso di aver paura che, uscendo invece di restare ad aspettare, io mi perdessi qualcosa. 

Infine vengono quelli che, di tanto in tanto, sono passati e forse passano ancora davanti alla mia porta e restano muti a spiare dalle finestre. Quelli che, di tanto in tanto, hanno lanciato o lanciano sassi alle finestre per poi nascondersi quando m’affaccio. Quelli che non c’erano più sul serio già da un bel po’ e parlo di assenze giustificatissime e anche di quelle che più che assenze si chiamano “io non sono mai  stato davvero presente, era solo che mi trovavo a passare”.  Che dire di loro.

Una volta, tanto tempo fa, credo vivessi a Napoli da pochi anni, io e una persona che all’epoca mi era cara più di me stessa ci rifuggiammo dentro la Chiesa del Gesù. Era una di quelle giornate azzurre in cui il sole sembrava aver deciso di sciogliere l’asfalto e noi cercavamo un posto fresco in cui sederci per parlare. Non so come venne fuori, ma ad un certo punto ci trovammo a misurare – più la persona che io – i tempi belli e i tempi brutti di una relazione x per deciderne l’esito: quanta felicità c’era stata, quanta tristezza, e via con il risultato: 4 mesi buoni e 7 da andare al manicomio significa che congeli tutto, concedi una proroga di 2 mesi, fissi un termine con te stessa e da lì tiri le somme, somme solo tue, ma in fondo, l’equilibrio in un rapporto qualsiasi si dà su un solo sentimento ben chiaro che provi prima di tutto tu, poi vediamo l’altro. Risi moltissimo, mi fa ridere ancora oggi la contabilità da salumeria applicata ai sentimenti. Credo anche di avere ancora da qualche parte il fazzolettino su cui provammo l’analisi – non saprei dire dov’è, lo ritroverò tra qualche settimana quando dovrò fare forzato ordine, oppure no -, di sicuro quest’anno quell’analisi l’ho ricordata spesso, l’ho fatta mia, come uno dei tanti insegnamenti per cui ringrazio, tantissimo. Applicarla è difficile, può fare anche un po’ schifo e non era mio costume, ma nel 2018 l’ho fatto. E funziona.

Funziona farsi due conti. Funziona capire. Funziona, finalmente, sapere. Funziona smettere di dirsi bugie. Funziona riderne. Funziona scoprire che hai un credito di momenti belli da riscuotere da anni e che sei invece in rosso con le tristezze, le banalità, le situazioni che già sai come andranno a finire da non farti più nemmeno noia, ma paura nel loro continuo replicarsi. Funziona tentare di cambiare le cose, prendersene anche la responsabilità delle cose. E funziona, infine, farsene una scienza, una ragione. Molti altri che la scienza e la ragione l’hanno (sempre avuta), forse un giorno riusciranno a farsene anche un sentimento. Boh. Non lo so. Non è detto. Non ho potere sulla cosa. Non è compito mio occuparmene.

Non è compito mio insegnare a vivere a nessuno, soprattutto a chi è più grande di me, ha più esperienza di me, ha sani principi più di me e, al massimo, qualcosa poteva insegnarmi e infatti così è andata. Mi hanno insegnato e io ho imparato. La lezione in certi punti è stata la stessa impartita da Madonna nel suo periodo biondo cenere con Live to tell, ma che dire: Meglio così.

Qui le cose, le città, le canzoni, i libri, i film etc. che nel 2018 hanno avuto il pregio di aggiustare il tiro e alla dottrina scandalosamente matura e anche un po’ paracula che m’era stata propinata (o mi ero fatta propinare), aggiungere la poesia, la dolcezza, la leggerezza, la creatività, la passione, la sensibilità che tante volte m’era stata negata, la sensibilità che tante volte avevo negato a me stessa io da sola dicendomi che era la prova di quanto male ero fatta. Sono fatta male, ma credo vada così per tutti.  Il 2018 è stato l’anno in cui ho smesso di farmene un cruccio e ho cominciato a farmene, finalmente, un’idea. Una bella idea. Fatevela anche voi. Auguri!

Il libro così bello che non volevo finire e, insieme, volevo leggere d’un botto – L’uomo che voleva uccidermi, Yoshida Shuichi.

Ho letto e scritto di molti libri quest’anno, da “Come si dice addio” di Laurie Colwin a “In” di Natsuo Kirino, ma di questo libro, trovato per caso su una bancarella di Port’Alba, non ne ho parlato quasi con nessuno e non sono riuscita neppure a rileggerlo da capo dopo averlo finito. È di una bellezza e di una precisione disarmante. Strutturato in una serie di punti di vista sullo stesso crimine – l’uccisione di una giovane donna – non è un semplice poliziesco nipponico, l’ennesimo (io li leggerei tutti, quindi per me non è un problema). Qui c’è l’eventualità che il responsabile e il colpevole possano fondersi e confondersi, l’eventualità che il mandante morale sia la stessa società e che la mano di chi compie il crimine sia infine mossa da cento altre: l’autore non solo riesce a renderle esplicite, ma lo fa anche con una scrittura limpida, che tiene insieme pensiero e azione. Il lavoro di traduzione di Gala Maria Follaco secondo me è spettacolare.

L’album che ho consumato più di un paio di scarpe – Cigarette after Sex dei Cigarette after sex che probabilmente volevano essere molto chiari circa il loro nome

I Cigarette hanno lo stragrandissimo potere di rendermi tutto più dolce e tollerabile e se il 2018 l’ho fatto da incensurata in fondo si deve a loro, nonché a Lust for Life di Lana del Rey. Non apro sull’argomento Lana perché l’ho affontato ampiamente qui. Il 2018 è stato anche l’anno del suo concerto di cui ricorderò sempre il momento in cui mi stavo sperdendo all’Eur e trovai una ragazza con coroncina di fiori azzuri, non ricordo più se siciliana o calabrese, che non solo ci indicò la strada giusta ma ci offrì anche da bere: aveva tipo 3-4 bottiglie di champagne nello zaino.

La cosa più bella che ho visto – Due sconosciuti a Buda

In realtà ho visto molte cose e molte persone bellissime, ma dovendo scegliere scelgo due sconosciuti che probabilmente non si vedevano da un botto e che ho visto incontrarsi per caso e abbracciarsi, il tempo di scattare una foto una mattina freddissima. Poi hanno ripreso il cammino insieme (me ne sono assicurata 2 volte mentre aspettavo il tram)

La cosa da bere buonissima che quando la ordini fai pure bella figura – Il Gewürztraminer.

Trattasi di un vino bianco buonissimo e fruttato. Io di vino, fino a qualche tempo fa,  capivo poco e niente (e se ne capisco qualcosa ora è perché nel 2018 il mio stomaco s’è ribellato a più riprese all’alcol solito di cocktail e birrette). Poi, un pomeriggio che era fine primavera, un amico mi ha portato a provare una cosa nuova e un locale nuovo invece della solita Piazza Bellini in cui cammino come nel salotto di casa mia, ma in pubblico. E la mia vita è cambiata. Gewurtraminer vino dell’anno, da quel momento anche vino del cuore, tantissimo cuore.

La serie che ho visto 4 volte pur essendo appena uscita, confermando la mia capacità monografica quando qualcosa mi piace – L’amica geniale, di cui ho scritto abbondantemente qui e qui ma anche, direi in coppia, The Handmaid’s Tale.

Anche qui c’entrano gli amici. L’amica geniale – il paragone con Lenuccia mi riempie sempre prima d’orgoglio e poi di terrore -mi ha portato un botto di amici geniali sul serio, soprattutto nella – non so quanto consapevole e quanto innata – capacità di vincere la mia ritrosia ai rapporti interpersonali. Era motivata da quanto avevo visto e vissuto nel mio recente passato, loro m’hanno mostrato che esisteva un presente. Senza chiedere futuro, senza chiedermi aggiusti, il solo piacere di camminarsi accanto, parlarsi, brindare, leggere e scrivere e ascoltare e raccontare. Che cosa bella, che grande, grandissima scoperta. E che grande, grandissima scoperta, stare a sentire i loro consigli sulle serie tv!

L’acquisto rivoluzionario del 2018 – I coppapasta. Mo’, pare niente, ma questi impiattamenti sono riuscita a farli solo così! 

La felicità del 2018, a proposito di tempistiche –  Di 12 mesi, 4 me li potevo abbondantemente risparmiare. Gli altri 8, invece, sono stati zeppi di tutto ciò che era abbastanza per quel momento e solo per questo, per questo e niente altro, per il loro spandersi nella mia memoria e farsi consapevolezza anche da qui, mi sono sentita e mi sento fortunatissima. Ho avuto una primavera, ho avuto un’estate, mi meritavo entrambe.

Dalla lettura partecipata di un racconto di Anna Maria Ortese a chi proprio in quei giorni arrivava a Napoli per la prima volta, dai cocktail del Cecconi ad AlexanderPlatz dopo aver camminato per due chilometri sotto la pioggia fine fine all’emozione degli europei di atletica all’Olympiastadion, dalla neve di Budapest e noi partiti di corsa con la certezza di non capire niente, alla certezza di aver capito qualcosa, una sera, guardando la tua amica di una vita in abito bianco.  Mezza Piazza Bellini s’è voltata al grido: Lenù! al mio indirizzo, ma soprattutto, s’è voltato un pezzo di me stessa, sorpresa d’esser meno peggio di quanto credeva, quel giorno e tantissimi altri. Non mi è mancato niente, o meglio, mi è mancato poco. E quel poco non ci sarebbe stato comunque, quindi ciccia.

Il desiderio, che poi dire 2018 o 2019 è difficile – Un un giorno della scorsa estate ho scoperto una specie d’esercizio spirituale, quello dei 100 desideri.

Si tratta di prendere un quaderno e scrivere 150 cose che si vogliono ed essere molto specifici in merito, per poi passare ad una cernita e scartarne 50. Bene, io che pensavo di volere un botto di cose e che 100 desideri sarebbero stati pochi e che si trattava di un giochino da ragazzi, arrivata al desiderio n.14 mi fermai. Non ne avevo altri. Come era possibile? L’ho capito adesso, l’ho capito scrivendo: avevo concentrato tutto in 14 cose che, più che volere, sentivo di dover volere. Da un po’ di giorni mi chiedo delle altre. Le altre sono un botto. L’augurio per il 2019 non è vederle esaudite, ma ricordarmele ed essere io a dir loro sì, sì, sì.

10 cose da sapere sul Salone del Libro di Torino (e che nessuno ti ha mai detto)

La prima volta c’erano vento e metropolitane da aspettare in due e prendere uno alla volta. La prima volta il paese ospite era l’India. La prima volta io ero così:

L’ultima, l’ultima invece Torino aveva le braccia scoperte al sole, e viali lunghi di vetrine pulite, e me sola su questi viali odorosi di vetril a cercare un tabacchi una ricarica telefonica un posto all’ombra. Avevo fatto il viaggio di andata in compagnia dell’associazione italiana arbitri (e con loro avrei fatto anche il ritorno, sì, e al ritorno ridevano assai). Prima di arrivare al Salone decisi per l’esperimento di aggiustarmi la bocca, in modo che potessi sempre collegare il fatto di essere sola al gusto della torta gianduia della pasticceria Peyrano.
Da qui in poi andò tutto liscio e il libro che presentavo  m’arrivava alla vita:

Ma adesso basta con la nostalgia e parliamo di cose serie. Io a Torino quest’anno non ce l’ho fatta ad esserci, rimando al prossimo. Però un paio di cose le ho imparate, dalla mia prima all’ultima volta, ed ecco: ne faccio dono.

Salone Internazionale del Libro di Torino
I consigli dell’autrice che mi dicono si porta

  1. Il biglietto per entrare al Salone. Ecco, io questa cosa qua ho una difficoltà imbarazzante a capirla, anche quando sono stata autrice con libro in presentazione: non è che non voglio pagarlo, no, ma è che costa quanto un libro e il Salone dovrebbe mirare a vender quelli, no?
  2. Passi le prime quattro ore intontito dalla quantità imbarazzante di libri che cominci a chiederti se il libro, come unità a sé, esiste ancora;
  3. Quando ti convinci che sì, anche nel marasma saprai riconoscere il libro giusto, e infine lo trovi, ti accorgi che non c’è un posto, uno, dove sedersi a leggerlo. Ecco, un consiglio: mettete un paio di panchine, oppure, lasciateci un paio di quei bellissimi pouf dell’area bambini;
  4. I microfoni non funzionano sempre;
  5. E c’è da dire che non è bello fermarsi ad uno stand per chiedere indicazioni per un altro stand;
  6. Così come non è bello tirarsi una questione immane sui libri che non si vendono, non si comprano, la crisi, e alla domanda: tu cosa hai comprato? Rispondere, beh, niente, non c’è nulla che attiri la mia attenzione ( che vorrei dire: al Salone stanno all’incirca mille espositori, ogni espositore avrà, a giocare molto al ribasso, 5 titoli, no? Quindi tu mi stai dicendo che su 5mila libri non hai trovato uno, uno dico, che ti facesse dire, ah  beh? Uao, complimenti, si chiama Nirvana);
  7. E non è bello nemmeno dire male malissimo di tutto lo scibile umano che ruota attorno quando fai parte dello scibile umano che ruota attorno;
  8. Alle feste si balla Britney Spears;
  9. A Salone si fanno molti inciuci, inciuci che non hanno senso una volta usciti dal Salone;
  10. La mappa del posto è sempre la stessa (a cambiare al massimo sono gli espositori) ma se non volete continuare a perdervi, dovete guardarla.