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Perché abbiamo amato quello che abbiamo amato

Quello che hai amato” è una raccolta non-fiction di pezzi di vita di 11 compagne di scrittura. E se non lo avete ancora letto, avete dubbi in merito alla cosa amorosa, ogni tanto vorreste prendere un caffè con un’amica ma senza uscire dal pigiama, ecco oggi su Amazon  vi si viene incontro con l’ebook a poco meno di 2 euro e se l’offerta è terminata, credetemi, ne vale la spesa comunque 

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Quando ho scritto la mia parte, anzi, quando Violetta Bellocchio mi ha chiesto di scrivere la mia parte con una sola condizione – ovvero che parlassi di qualcosa che avevo amato, e io sono un tipo che se non ama quello che fa non lo fa – avevo un bel set di dubbi in merito, tipo set di coltelli Miracle Blade. Soprattutto sulle conseguenze: non solo del raccontare, ma del farlo in modo che gli altri potessero leggerlo e forse capirlo e anche io, ogni tanto, potessi andare lì, tra le pagine, a sapere che c’era un inizio e una fine e che forse, nel momento esatto in cui finisci di scrivere una storia, dal momento che almeno sulla carta ti sembra compiuta, le cose devono andare per forza diversamente anche fuori dalla copertina flessibile su cui sta scritto il tuo nome.

In ogni caso, senza enumerarvi le reali implicazioni della cosa, ma è come se Chef Tony si fosse fellato un dito durante la dimostrazione, questo libro, pubblicato da Utet, non raccoglie storie di delusioni, tristezze, dolori etc, almeno io non l’ho mai vista così, anzi. È tutta vita. E se lo svolgimento, la riuscita, l’esito di quanto raccontato non è stato necessariamente bello è solo qualcosa che è capitato. Un fatto incidentale, così come a quei signori spersi sull’Everest di cui parla Jon Krakauer in Aria Sottile, capita di finire male.

Non per questo, voglio dire, si mettono lì ad azzuffarsi o dirsi l’uno con l’altro cose tipo “oh, ma chi cazzo me l’ha fatto fare, non potevo morire in coda al supermercato? Che cazzo ci siamo venuti a fare sulla vetta della montagna più alta del mondo, non lo sapevamo che gettare il sangue era tra le possibilità, che il meno sarebbero stati i geloni (li ho avuti, quando andavo a liceo a Campagna e vi assicuro che anche quello è un rompimento di scatole)?

I tizi cercano di non finire male come è ovvio, forse non vogliono altro che tornare a casa e stravaccarsi sul divano o sperano anche di raccontarlo un giorno (perché qualcuno ne faccia tesoro o solo perché se di una pena, di un dolore, di un fatto si può fare una storia, allora lo si può anche superare), ma  quando a uno di loro chiedono: “Perché l’hai fatto?”, quello risponde serio e sicuro: “Perché potevo. Perché era un crimine non farlo”.Ecco, io sono certa che qui abbiamo amato quello che abbiamo amato per le stesse identiche ragioni. Lo so, per certe concrete scienze l’essere umano provvisto di cuore e sentimenti è un incomodo, un elemento di disturbo, ma in narrativa – e forse anche nella propria coscienza – ci sta benissimo. E dunque, enjoy it: sapere che se sei arrivata a leggere fino a qui o a scrivere fino a qui o, ancora, a vivere fin qui, l’hai fatto perché amavi, non mi pare male. Anzi. Ad avercene di giustificazioni così. 

​Cose che puoi fare per vincere un’assenza

Per vincere un’assenza, puoi, ad esempio,
andare in libreria e pensare che quel tempo è ben speso, per te, solo per te,
e che non stai togliendo attenzione a nessuno ma ne stai dando:
al mondo, sperando abbia ancora qualcosa da dirti
(qualcosa che dica, sorridendo: c’è ancora tanto – altro- che puoi fare e vorrai fare, anche se ora non ti sembra).
Per vincere un’assenza, poi, una volta uscita puoi
camminare
spedita girando al largo dai bar che conosci,
leggere sulle scale mobili senza guardare
i volti di chi ti è accanto

e che son sempre stati la tua lettura preferita, a fine giornata, ché è così semplice, ti dicevi, capire chi è felice davvero quando si è tutti sullo stesso binario
e tutti pensiamo di non poter esser visti,
da nessuno di importante, comunque.
Per vincere un’assenza, non puoi chiamare la persona assente dal mondo di ovatta in cui è finito e dirgli: mi manchi;
puoi però chiamare altre persone e dir loro niente
se non “raccontami, raccontami di te”.
Puoi diventare più gentile con gli altri e più dura con te stessa, che se qualcosa ti manca forse qualche colpa ce l’hai
anche tu.

Puoi cucinare, e mettere in tavola torte e verdure ripiene e spaghetti
per dimostrare che vuoi bene a qualcuno o, più onestamente, per farti voler bene da qualcuno.
E puoi ancora:
camminare molto in direzioni che sai solo tu;
comprare biglietti d’aereo per posti lontani che non pensavi neppure.
Puoi scrivere, di sera, sul tuo cellulare, mentre guardi una partita mondiale, la tua lista personale,
chiamarla “rimedi buoni per non crollare e non chiedere niente, neppure il perché”.
E considerare che siccome i rimedi buoni vanno ad esaurirsi mano a mano che cresci e vinci assenze,
le cose che elenchi stavolta sono a prova di bomba.
Un po’ ti potrebbe spiacere, morire sana e salva lì dove t’attacchi
Ma tra le cose che puoi fare per vincere un’assenza, la prima è fingere di non sapere che ce la farai,
anche stavolta,

nessuna alternativa:
che le assenze si vincono sempre e dal dolore si impara, anche a malavoglia,
e ancora più a malavoglia si ricorda
fino a non sapere più chi è stato ad insegnarti quello che sai oggi:
rimedi, cure e tutto quello che avresti voluto non ti servisse (mai) più.

18 euro, 34 cent.

E poi è successo che una sera avevamo appuntamento fuori dalla metro, e io avevo i capelli pieni di lacca che il mio parrucchiere è un parrucchiere popolare, di quelli che la lacca, beh, la lacca signore, il nostro biglietto da visita, altroché buco dell’ozono. Ma comunque: avevamo appuntamento fuori dalla metro, e sprigionavo lacca, e mi avevi già cercato 3 volte al cellulare, ma quando sono arrivata non vedendo nessuno ho pensato, bene, stavolta non ho fatto tardi, stavolta non dovrò dire, scusa, sai, la metro, il parrucchiere. Avevo già pronta la storiella della lacca, nel caso (mi avresti immaginata a tossire, con gli occhi chiusi, per la modica cifra di 9 euro, il martedì e il giovedì). La verità è che sapevo che c’era un’alta probabilità che fuori dalla metro non ci avrei trovato nessuno, e non perché fossi in anticipo, ma perché avevo fatto così tardi che solo un pazzo m’avrebbe aspettato. C’è da dire che la cosa non mi spaventava mica, io con te non mi sono mai spaventata più di tanto, ero e sono tranquilla, se non c’eri non c’eri, avrei provato a chiamare, ma senza l’ansia di quelle cose del ma che fai, lui se ne va e chiami tu, e se non ci fosse stata risposta, me ne sarei andata, ma senza il patema di quelle cose del non risponde e non mi ha aspettato, che succede? Non te l’ho mai detto, ma per me è questo amore o come si chiama lui, questa piccola cosa del potermi permettere di essere me senza dover fare, dire, temere, mica semplice.
Non mi è mai riuscito o nessuno me l’ha mai lasciato fare, e tu sei una specie di eroe, di santo, di alleato dello sbarco, fai tu. Il punto, vedi, è che tu c’eri, fuori dalla metro, solo che mi aspettavi all’altra uscita, e quando ci siamo visti  tu non mi hai detto niente sul ritardo e io non ti ho detto niente sul fatto che ci eravamo dati appuntamento davanti allo stadio e non davanti all’edicola. Ridevamo. Tu hai fatto una battuta sul fatto che i miei capelli profumavano di anni Ottanta, e io ho cantato Jon Bon Jovi, t
ake my hand and we’ll make it, I swear, poi siamo andati a fare la spesa. Il conto era di 18 euro e 34 centesimi.