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A Tiziano (Ferro) per il suo compleanno

Questa mia è una dichiarazione d’amore e di intenti, ragionati quanto basta per essere una volontà: quella di fare un minimo di giustizia. Su Tiziano Ferro. Non che abbia bisogno delle mie parole a supporto ma mi farebbe piacere se questo giovane uomo di trentasette anni oggi, trovandosi un domani ad affrontare uno dei dilemmi che ha cantato – uno qualunque da “e non vuoi nessun errore però vuoi vivere” a “stavo attento a non amare prima di incontrarti” passando per “ricorderò e comunque, anche se non vorrai” – sapesse quanto sono importanti per altri, me compresa.  

Dunque, cominciamo. 

Sarei io, qui, la sottoscritta, una donna istruita che ha passato fasi adolescenziali: so chi era Soren Kierkegaard, ho un libro di Almudena Grandes accanto e i piatti di ieri sera ancora da fare. Ah, ho anche più di venticinque anni che mi sembra il limite massimo consentito dalla morale pubblica per farsi un piercing o un taglio di capelli radicale color blu cobalto. Cosa che farei, per l’appunto, se non avessi raggiunto i limiti di tempo per determinate capate a muro. Il fatto è che in tutte queste facezie sta la possibilità di salvarsi la vita, o un pomeriggio o un mese intero. Un anno anche, per dire.

Sono piccolezze trascurabili di fronte agli ideali sociali e politici, stramazzano di fronte alla collettività, davanti ad un titolo di giornale impallidiscono. Sono angoli, e chi ne tiene conto quando la strada da fare è così tanta e l’unico onore sembra ormai quello di riuscire a percorrerla senza che nulla ci turbi? Io, in pratica. E Tiziano. 

Non so se avete mai osservato la gente in attesa da un parrucchiere, quando hanno già le idee chiare chiarissime e sfogliano un giornale nell’attesa di confessarle ad una specie di sacerdote della messa in piega. Non so se avete mai dato un occhio a quelli che arrivano in anticipo alla lezione di Pilates e stanno lì alla porta come fan roventi in attesa di un concerto. Non so se avete mai guardato in faccia uno che canticchia Tiziano Ferro e il suo “nanana-na-na-na“. Io sì (di nuovo), anche perché sono una di loro. 

Comunque la cosa che si vede subito, che ti permette di non sentirti a disagio e di non vergognarti a starci in mezzo, è che reclamano un diritto non sancito da nessuna legge, perché non c’è nessunissima persona che ti dica che fai bene a incazzarti, crollare, piangere e poi esser capace di tirarti su con poco, che sia una canzone o una messa in piega o un’ora di dondolamenti su un materassino di spugna.

Ad ammettere queste cose potreste passare per mainstream,vi avverto. Se non ci tirate accanto un eco-bio, un coordinamento in cui siete persone attive o una bella citazione da De Gregori non potete nemmeno passare per radical-chic. Se non avete scritto un libro con una grande casa editrice il vostro trend sarà quello di uno/a sciocchino/a. E non vi dico cosa succede se vi scoprono a guardare le esterne di “Uomini e Donne” alla ricerca degli script comuni alle coppie (senza ricordare a chi vi ha beccato che su tale cosa ci hanno fatto un convegno nel ’78, certo non riguardava propriamente Maria De Filippi e il suo lavoro di mediatrice culturale, ma cazzo, la Cognitive Scienze Society riunita a La Jolla aveva chiamato i mastri dell’Intelligenza Artificiale, psicologi, linguisti, neuroscienziati e filosofi e stavano tutti là a chiedersi scrupolosamente se le persone si comportano davvero per come si sentono di fare o se le loro facezie sociali rispondono solo a modelli socialmente riconosciuti come accettabili). 

Vi chiederete cosa c’entra questo con Tiziano Ferro. Bene. Egli è uno degli ultimi baluardi del non essere un automa. 

Il dolce caro bellissimo piccolo tesoro d’uomo qualunque orientamento sessuale egli abbia ha concesso a un botto di persone di farsi un bel pianto, una bella risata e nella maggior parte dei casi, una bella cantata liberatoria, su cose che, ci hanno insegnato, non dovrebbero essere neppure provate, figuriamoci ammesse. Oggi, per dire, è riuscito a farmi canticchiare una cosa come “il bene più segreto sfugge all’uomo che non guarda avanti mai” (ed era difficile che io canticchiassi oggi, voglio dirvelo). Insomma, chiedersi se una storia può andare avanti o meno, sentirsi più spaurito e perduto di un cucciolo di foca nella stagione della caccia (cucciolo di foca orfano, ndr.), temere che i tempi buoni vadano via troppo in fretta e che quelli cattivi restino invece cristallizzati a farci il cuore piccolo e secco come quello della pecora in formaldeide di Hirst in virtù della giustezza, della serenità, di un nirvana che nessuno si ricorda mai essere, in realtà, l’assenza di desiderio: vi sembra poca cosa renderli cantabili, condivisibili, in qualche modo anche giusti?

Tiziano Ferro è praticamente quello che ti soccorre e quando cominci a farti domande che metterebbero in crisi le più alte cariche dello Stato.

Davvero. Io sono convinta che anche la scissione del PD potrebbe essere ampiamente risolta da Tiziano. Tipo che chiudono Emiliano, Bersani, Veltroni e Renzi in una stanza e gli mettono a palla “Ti scatterò una foto” “Potremmo Ritornare”.

  • A “Siamo figli di mondi diversi e una sola memoria che cancella e disegna distratta la stessa storia”, si guardano con gli occhi lucidi – da lontano, ognuno nel proprio cantuccio, mantenendo le distanze – ma pensano: cazzo, è vero!  Veltroni  – che è quello a cui piace fare lo splendido capace di parafrasi che gli rendono possibile fare lo stesso discorso dal 2008 senza farsi prendere a selciate -, si sta chiedendo se la canzone è molto nota e deve citarla necessariamente nel nuovo intervento o se può farlo en passant. Renzi che è più pragmatico sta inviando un messaggio su Telegram per accertarsi a) della posizione di TZN (del resto oggi sul Corriere hanno un pezzo sulle posizioni dei VIP) b) del copyright per l’utilizzo della frase come claim della prossima futura campagna elettorale c) di nuova assemblea mozione “Tiziano” in cui è possibile esprimere il proprio parere solo ed esclusivamente citando il Ferro (Renzi ha tenuto per sé la hit “Perdono” e si sta esercitando sul verso “se quel che è fatto e fatto io però chiedo scusa – regalami un sorriso io ti porgo una rosa – su questa amicizia nuova pace si posa – perché so come sono e infatti chiedo Perdono – Scusa –
  • A “Potremmo Ritornare”, anzi al verso “Ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornare” stanno cercando su internet una data del Tour che non sia ancora sold-out (purtroppo ci hanno messo un po’ di tempo perché Bersani non era sicurissimo di potersi muovere quel giorno, ma poi si è convinto, ha fatto pure una battutina puntuta tipo “Oh ragassi, non è che le correnti del PD si fermano chiudendo le finestre” e Veltroni, che intanto era già andato su Google, ha scritto “Tiziano Ferro canzone su vento corrente aria fredda” gli ha risposto “E se si alzerà il vento/lo vedremo scatenare le più alte onde in mare (…) E ci darà di più di quello che c’è stato/E quello che è passato/ E sarà tuo e mio”).

Tizianuccio (l’ho nominato talmente tante volte che siamo usciti a parenti, intanto) in pratica, è l’unico che non parla di futuro come se il passato fosse interamente da rottamare (leggi: portare fuori con la spazzatura).

E se guardiamo in prospettiva gli ultimi anni, se io stessa mi volto dalla scala di Escher su cui mi sento di stare e abbasso gli occhi, Tiziano c’era.  C’era e non mi ha mai fatto prendere sonore strafacciate a seguire consigli tipo “inciampa piuttosto che tacere, domanda piuttosto che aspettare”, mai.  C’era e se ne usciva con una canzone nuova – non so sceglierne una sola e quindi non sceglierò – a ricordarci che paure, dubbi, domande e “nanana” sono tutte cose importanti per raggiungere l’unico obiettivo a cui mi sento di aspirare seriamente e cioè: non avere mai alcun rimpianto.

Non ne ho.

E questa è l’unica cosa che riesco a dire di me con orgoglio. Assieme al fatto che sono sicura che Tiziano Ferro capirebbe benissimo cosa intendo. E mi risponderebbe:

L’amore è una cosa semplice e adesso, adesso, adesso, te lo dimostrerò.

Sanremo: 5 canzoni da conoscere per fare il tipo sui social

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità con riferimenti alla cultura popolare italiana e le sue implicazioni sociali alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust pronunciando solo ed esclusivamente la frase “trottolino amoroso dududù dadadà” che se ci è riuscita Maria De Filippi potete farlo pure voi.

Un tempo la prima regola dello spettatore del Festival di Sanremo era non dire a nessuno che hai visto tutte e 5 le serate del Festival di Sanremo. Tipo Fight Club, ma con Pippo Baudo al posto di Tyler Durden. (in foto, eccolo mentre sventa un tentativo di ricerca del proprio animale guida). 

Un tempo, quando ti piaceva una canzone eseguita rigorosamente per la prima volta sul palco dell’Ariston, le opzioni erano due:
a) un Mixed by Erri su cassetta verdognola;
b) registrazione homemade su Tdk da 90 minuti dopo scandagliamento su frequenze radio;
L’ascolto, in entrambi i casi, era a volume bassissimo nel tuo walkman, sia mai che qualcuno, sull’autobus che ti portava al liceo, avesse l’udito fine.

Un tempo, l’unica ammissione possibile era la super ospitata dell’artista straniero di tendenza: Madonna che canta “Take a bow” nel 1995 imbardata come la Signora Coriandoli. O i Take That – perdonatemi, è un ricordo personalissimo- che nel 1996 rispondono alle domande delle fans in deliquio me compresa ma muta, seduta a terra nel salotto di casa sotto lo sguardo perplesso di mio padre, il dito indice pronto al rec su vhs, inconsapevole del fatto che un giorno avrei trovato tutto su YouTube.

Eccovi un video del momento in cui il mio cuore adolescente ha fatto crack per la prima volta. Dite ciao. Per approfondire la sua conoscenza, cliccate pure qui

Chi prendeva un treno e si portava in Liguria, nella stragrande maggioranza dei casi ci era costretto. O aveva meno di 20 anni, aveva visto molte volte “Sposerò Simon Le Bon” e pensava che scapezzarsi e spezzarsi una coscia appresso ad un tizio che sta sui poster del Cioé fosse una cosa estremamente romantica nonché il primo necessario atto per una vita sentimentale edificante (poi ci chiediamo perché stiamo messe come stiamo messe).

Insomma, un tempo, come avrete capito, Sanremo era un fatto da sfigati costretti al ludibrio acustico dalla scarsa controprogrammazione, non c’era Netflix e, soprattutto, soprattutto nessuno faceva team per commentare pubblicamente il vestito di tal dei tali, la faccia messa malissimo di un big che ha ormai superato i 50 e l’abbronzatura di Carlo Conti con hashtag apposito. Adesso ho gente che mi chiede se anche quest’anno a casa mia si fa la diretta social. Sì, la facciamo. Ovvio. Però, a parziale risarcimento del mio cuore adolescente infranto, bisogna che siano ristabiliti alcuni equilibri cosmici.

Perché per commentare davvero Sanremo e fare il tipo/tipa su twitter e facebook, ci sono delle canzoni misconosciute che bisogna conoscere fino all’ultima nota parola fraseggio mirabilmente diretto da maestri quali Beppe Vessicchio. Cominciamo.

Margherita non lo sa, Dori Ghezzi, Sanremo 1983 

Qualche tempo fa ero in un locale milanese, nome “C’era una volta una piada” e anno percepito 1980 e rotti. Partì questa. Mezzo locale canticchiava, e anche io. Non so come e perché la conosco, all’epoca dell’esibizione dovevo avere una settimana di vita al massimo. Però Margherita che continua a non trovarsi nello specchio, veste male, dice “niente di speciale” e si nasconde dietro un’altra sigaretta su ritmo sincopato, ecco: di quante di noi è un identikit affidabile?

Donatella Milani, Volevo Dirti, 1983 ancora 

Rivalutate la cara tizia che si presenta in tuta verde e gialla, cespuglio in testa, ammette “ho fatto l’amore con te senza chiederti niente di me” e si classifica al secondo posto. È vostra amica in casi di capate sentimentali, friendzone e appuntamenti presi su Tinder. Al pari di “Amici come prima” di Paola e Chiara, Sanremo 1997.

Anna Oxa e Fausto Leali, Sanremo 1989

 

Lo o che questa canzone è conosciuta sicuro più delle altre, però un ripassino fa sempre bene. Ho scelto questa coppia che se l’è giocata alla grande coi Jalisse, Sanremo 1997  perché condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dai 6 agli 8 mesi. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia che le comporta ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”. L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Rudy Marra, Gaetano, Sanremo 1991

Molto prima di Calcutta, c’era lui, una specie di Luca Carboni sfortunato che canta “e adesso c’hai un figlio Gaetano, e adesso a lui che cosa gli diciamo“. Trovate Rudy Marra, ditegli che non è colpa sua se all’epoca l’indie non era di moda.

Antonella Arancio, I ricordi del cuore, anno del signore 1994:

Questa è la canzone che racconta con dovizia quello che penso ogni volta che mi prende male nonché il mio intero 2016. Se l’avesse cantata Laura Pausini sarebbe stata un classico mondiale. Invece la cara, dolce Antonella con il cocco nei capelli (la cofana l’avrebbe riportata in auge solo Amy Winehouse) gli orecchini a forma di crocefisso (si portavano, non fate finta di no) e il completo camicia bianca + gilet con gli alamari, dopo averla incisa in spagnolo – Recuerdos del alma – e aver avuto ottimo successo in America Latina è scomparsa.

Alessandro Mara, Chiara, Sanremo Giovani 1995 

Parlo a te, ragazza che all’epoca era nel meglio dell’adolescenza e adesso c’ha trent’anni and so on. Pensavamo che Alessandro Mara ci avesse fatto la radiografia. Pensavamo che Chiara che si nota tra la folla/ Chiara che ha imparato a stare a galla fosse la migliore versione che potevamo dare di noi stesse. Pensavamo, soprattutto se nate nell’hinterland vesuviano, che si parlasse di noi al verso “un fiore di campo in cima ad un vulcano“. Ancora oggi ci chiediamo: “è un dono o un difetto essere trasparente?”. Cercasi uomo capace di mettere tutto in musica.

Bene, ci avviamo alle conclusioni. Che sono:
1) Se conoscevate queste hit prima di questo post, siamo anime potenzialmente affini;
2) Se ve ne vengono in mente altre, tipo i Quinto Rigo con Bentivoglio Angelina, siete in buona compagnia.
3) Se dovessero porvi la domanda più in voga degli ultimi anni, e cioè: “Perché Sanremo è Sanremo?” con fare ironico o leggermente perculante, c’è solo una risposta possibile. La sapete già.

È: Ta da dan! 

L’amore e la violenza. E i Baustelle che sono tornati.

 

IL NUOVO ALBUM DEI BAUSTELLE È UNA CAREZZA.
E DICE «NON AVER PAURA, NON PIANGERE MAI».

Assafà a Maronn! 

Premessa all’ascolto

Ero convinta di aver voluto molto, molto bene ai Baustelle. E di non volergliene più. Ero certa d’aver pensato di Bianconi come di un poeta. E di volermi prendere a schiaffetti – quelli da risveglio post sbronza – per aver creduto una cosa del genere. Ero sicura d’esser stata giovane universitaria ragazza precaria squattrinata dal portafogli sentimentale messo peggio delle Borse venerdì 29 ottobre 1929. E di aver superato con lode tutti gli esami tardoadolescenziali fino a prendermi una Laurea. In Distacchi, cattedra del Lasciare Andare, Università del Diventare una Persona Seria & Pratica.

La produzione dei Baustelle dopo il 2008 aveva per me la valenza di un solitario brufoletto acneico, quello che ti ritrovi sulla faccia una mattina che c’hai roba importante da fare e ormai sai anche che è meglio far finta di niente piuttosto che provare a schiacciarlo, tanto non risolverai granché a parte mandarti in fuoco una guancia.

Non che i Baui avessero completamente cannato la poetica, eh. Ma dopo “Amen” avevano fatto due album di inediti che mi faceva assai male ascoltare. Mettere su “I Mistici dell’Occidente” significava, ad esempio, arrivare a “Le Rane” e ogni volta ritornare su un luogo del delitto chiamato “rapporto con il tempo che fugge ma il segno del tempo rimane” e tutti quelli a cui avrei voluto chiedere:

«che fine hai fatto, ti sei sistemato, che prezzo hai pagato, che effetto ti fa, vivi ancora in provincia, ci pensi ogni tanto alle rane?».

Finivo sempre a piangere nel cesso come da testo della canzone, ma senza aver incrociato nessuno al bancone del bar mentre beveva un amaro. Magari lo bevevo io per riprendermi. Finivo sempre a tentare di replicare – per ore –  il tono da rigoroso prete di campagna che fa di Bianconi Bianconi quando canta: «la crudele pesca delle rane in uno stagno usato per l’irrigazione, io e te, fratello mio». Con “Fantasma” andò meglio, ma solo perché ormai avevo capito, ci avevo fatto il callo, cosa pericolosissima: non mi sorprese per niente, anzi. Lo ascoltai, apprezzai poca roba di cui ho scritto ampiamente qui, a distanza di tempo rivalutai solo “La Natura” che secondo me ha un testo bellissimo, riconobbi ai Baustelle la capacità di tenere insieme temi economici, democrazia ed emancipazione sessuale in 3 minuti e 52 di canzone. E basta. Qualche tempo arrivai a riconsiderare l’intera faccenda amorosa tra me e il gruppo da Montepulciano, provincia di Siena, e ammisi a me stessa che il riff de La guerra è finita, anno di grazia 2005, era troppo simile al riff di The First of the gang to die di Morrissey, anno 2004,  e con tutto il bene che voglio ai Baui, come dire: Steven Patrick è Steven Patrick, unico uomo per cui potrei smettere di mangiare la carne.

In pratica, anche se io e Bianconi non ci siamo mai parlati e non ci siamo mai conosciuti e il massimo del contatto è stato visivo ad uno dei vari concerti (mettete il mio nome tra i fan, i baustellisti veri, seri) nei suoi riguardi mi sentivo come se fossimo stati insieme. E mi avesse lasciato di malo modo con una serie di paranoie e frasette crudeli una bella mattina e senza spiegarmi un cazzo. In pratica, Bianconi era un mio ex: l’avrei incolpato anche della Guerra Fredda. 

Ma come tutti gli ex grandi amori, eccolo di ritorno.
Perché i Baustelle, signori, sono tornati.
Perché Bianconi vuole dirmi che posso tornare a credere in lui. 

 L’ascolto

Il grande dono di grazia e forza che ha “L’amore e la violenza” è che è il primo da 9 anni che non ti faccia rimpiangere il passato, anzi, che ti dica che il passato è passato, andato, finito, grazie a Dio o a chi per lui.
E non c’è da temere per il futuro. 

Questa è un’importante svolta tematica per cui bisognerebbe stappare lo spumante! I Baustelle, anche nella loro versione migliore, hanno sempre cantato l’esser infastiditi dal tempo andato e terrorizzati da quello tutto da venire e adesso non lo sono più (e non lo siamo manco noi che li ascoltiamo da 16 anni).

Mentre ascoltavo “L’amore e la violenza” mi sono sentita come una a cui viene chiesto scusa in 320 modi portati in dote dalla sintassi italiana. Mentre ascoltavo “L’amore e la violenza” mi sono sentita come una a cui vien chiesto non solo di ricominciare, ma di farlo senza pensare al passato, tutelarsi con l’esperienza, le cose che pur non volendo sapere sa. Mentre ascoltavo “L’amore e la violenza” ho sentito la carezza di Bianconi uso papa, The Young Pope, dirmi «non aver paura, non piangere mai, lascia consumare il presente» . 

Le tracce migliori secondo la sottoscritta*
*(questa è una citazione colta per intenditori)

Sono almeno 8 su 12. Nel senso che ho fatto la schizzinosa, un ruolo che rivendico in quanto ci sono rimasta già male troppe volte e Bianconi chansonnier e poeta deve farsi sempre perdonare per il Bianconi scrittore (Dio!).

1) Per prima, in ordine di track, c’è “Il vangelo di Giovanni”, 4 minuti tondi tondi in cui Bianconi e Rachele cantano: «Io non ho più voglia di ascoltare questa musica leggera» e ancora «Smettere per sempre di fumare, imparare il sesso nell’amore, l’idiozia di questi anni, il vangelo di Giovanni, la mia vera identità». Insomma, pare che i Baustelle abbiano visto la lista dei miei buoni propositi 2017. 

2) Io non so se parlare di capolavoro per “Amanda Lear”, primo singolo, però lo devo dire: è la prima canzone sul tema ex che mi sia piaciuta davvero davvero davvero da anni. Anni. Ha dentro una cosa che ho sempre pensato: che quando ci si lascia, l’uno diventa il mandante morale delle cazzate fatte dall’altro nel riprendersi. Ne è responsabile, insomma, nel bene e nel male. È la canzone che vorrei mi avessero dedicato o che avrei dedicato, non lo so. Il solo fatto che esista Bianconi a centro scena come nel prepararsi per un duello, il solo fatto che canti: «Amore antico, amica mia» mi basta.

(smettere di scrivere di “Amanda Lear” è la cosa più difficile
che io abbia fatto in questo inizio 2017. Ascoltatela.)

3) “Betty”. Betty è il ritornello con cui mi sono svegliata stamattina. E l’ho ascoltata ieri sera per la prima volta. Se volete sapere qualcosa delle ragazze che sfidano «il buio come una fine di galleria», sta qui dentro.

4) Ad avermi aperto il cuore a quattro parti, però, è stata “Eurofestival” che considero una nuova “Il liberismo ha i giorni contati”. Non so se il riferimento ci sia davvero o sia stata io ad ampliarlo, ma mi ha ricordato gli Abba di “Waterloo”, canzone con cui vinsero, per l’appunto, l’Eurovision Song Contest 1974 e che nel 2005 fu decretata la migliore canzone partecipante alla competizione canora europea. L’Europa, c’è da dirlo, è un tema importante di questo album, moltissimo: c’è dentro la paura degli attentati, i migranti, i cambiamenti e un’infinita speranza. C’è Rachele che canta, nei primi 48 secondi: «Dalla Turchia all’Albania posti di blocco, posti di polizia, la guerra avanza, ragazzo mio ci vuol pazienza» e Bianconi che in un panorama di «bravi registi, preti e Lacryma Christi in abbondanza» urla: «via, portatemi via, buttatemi fuori dal Festival».  Non riesco a smettere di ascoltarla. 

5) Il bello con quest’album è che non devi preoccuparti di smettere di ascoltare una canzone, perché quella dopo è bella uguale anzi in maniera diversa. E dunque, potrei dire anzi lo dico che è bella “Basso e batteria”, è bella “La vita”, è bella anzi di più “Ragazzina”, un misto tra De André e Baglioni che dice: «guardi il mondo che ti sbuccia le ginocchia e ti fa sanguinare». Ma questo post – recensione è già troppo lungo così, quindi fidatevi di me. Che vado a chiudere e lo faccio con “L’era dell’acquario”. E la dichiaro mia canzone. Dalla paura per gli attentati a quella più strettamente personale per i propri rapporti con gli altri e con i sentimenti, per me è stato come avere un abbraccio da mio papà. E mio papà non c’è più, per dire.

“Torneremo a fare l’amore, vedrai
a guardarci dritto negli occhi
ci si abitua a tutto, al dolore, alle stagioni, alla storia, al calendario.
Non aver paura, non piangere mai,
lascia consumare il presente,
tutto sarà niente, il compiuto già passato nell’Era dell’Acquario”.

Ho un’altra piccolissima notazione da fare e poi chiudo: ascoltando l’album si sente che Bianconi è, come dire, cresciuto. Cioè, io ho sempre sperato che qualcuno lo rendesse felice. Non so se è accaduto, ma secondo me sì. E secondo me ha gli ha dato anche una buona mazzuliata sentimentale conseguente alla felicità. E che questo lo abbia portato a mettersi in discussione e uscirne meglio di come era partito. La mia era una sensazione, poi ho fatto ricerche e ho scoperto che è effettivamente così: «Sono andato a letto presto la sera, ho fatto un figlio, mi sono separato», ha detto. E dunque, Bianconi: io ti voglio bene. Ancora. Tanto. Lunedì 16 gennaio presentate l’album a Napoli e la prossima cosa che farò una volta finito di scrivere sarà togliere di mezzo un appuntamento preso senza pensare che avrei avuto voglia di vederti. E stringerti rispettosamente la mano. 

Un tempo ti avrei baciato in bocca.
Adesso, Francesco, siamo grandi.
Non è così male, no?