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Chiara Ferragni, il vestito è il messaggio. Ma quale?

Che durante la prima serata della settantatreesima edizione del Festival Sanremo uno dei maggiori temi di discussione non avrebbe riguardo né canzoni né cantanti, lo sapevamo. Chiara Ferragni nelle vesti di co-conduttrice la aspettavamo: chi la adora con trepidazione, senso di rivalsa e orgoglio, chi non l’ha in simpatia, al varco, con l’occhio attento alle possibili falle, errori, incrinature nello stile. Io, che ne ho sentimenti piani, la seguo sui social e ho visto pure “Unposted” trovandolo meglio di quanto pensavo, ero invece in attesa di una nuova puntata dello storytelling. Il primo assaggio l’ho avuto alla sua comparsa di spalle: una stola immacolata, all’apparenza trapuntata, che strizza l’occhio, temporaneamente, a tre cose insieme: il meteo di febbraio con l’ondata di freddo gelido, la tendenza moda 2023 che vuole capi spalla oversize, e il mio stare lì sul divano, davanti alla tivù, con una copertina sulle spalle. Quella di Chiara era anche un manifesto, e il messaggio in maiuscolo nero glitterato di due parole appena: PENSATI LIBERA. Lo scialle-manifesto che, come spiega la direttrice creativa di Dior Maria Grazia Chiuri, ha un’ispirazione importante e che rivendica l’atto politico dell’immaginazione per ricreare la realtà, appare però incline al farsi meme seguendo regole e principi dei social network: la frase può essere facilmente cancellata e rimpiazzata da altri messaggi, cosa regolarmente avvenuta. Emerge allora la sottotraccia narrativa: la differenza tra il pensarsi in una determinata maniera ed esserlo sul serio. 

Quando Chiara Ferragni, al primo cambio d’abito, torna sul palco con indosso una mise anatomica – tipologia già sfoggiata da Madame nel 2021 – dice, mentre Amadeus invita alla calma: Posso tranquillizzare tutti io? Non sono nuda, questo vestito non è trasparente. È un disegno del mio corpo” e anche “Il corpo di noi donne non deve mai generare odio o vergogna”. Ma la rassicurazione e negazione contenute nella prima frase sembrano contraddire la seconda: se non c’è di che imbarazzarsi e avere timore, se la ripugnanza e il rancore vanno doverosamente accantonati (e il pubblico che applaude e grida “sei bellissima” chiarisce la buona disposizione) che bisogno c’è di tranquillizzare e soprattutto, chi? Sul palco di Sanremo, si conferma allora l’atto più comunicativamente sovversivo il finto pancione di Loredana Berté nel 1986: in seguito lei stessa lo descrisse come “un costume pazzesco disegnato per me dal grande costumista Sabatelli. Per molti è stato un errore, ma per me no. Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è ancora più forte!”; ai tempi, si scatenò il dibattito e la polemica. Dalle pagine de La Stampa, Aldo Carotenuto descrisse l’episodio come “degno di un discorso psicologico”: “Una concorrente già famosa si è presentata ostentando una pancia che in maniera inequivocabile alludeva ad una gravidanza avanzata (…) C’è da chiedersi se la sua sconfitta sia dipesa non tanto da scarse capacità artistiche quanto piuttosto da una reazione emotiva del pubblico che, non votandola, l’ha forse punita dell’incauto travestimento. Se la ragione della sconfitta è dipesa da questo particolare, ci potrebbero essere varie spiegazioni che affondano le radici nella dimensione più inconscia degli uomini”.

Pensando alla mise di Chiara Ferragni, mi chiedo: se il disegno non fosse quello del suo corpo, ma del mio dopo un anno di tiroide impazzita e varie ed eventuali, se fosse il corpo di una di noi che non ha avuto tempo, modo, possibilità di un’estetista, se pensandoci libere non avessimo problemi o vergogne o imbarazzi nel mostrarlo, sarebbe ben accolto uguale da chi guarda? Mi torna in mente un verso di “The Armpit Song” (La canzone dell’ascella) di Siwan Clark che dice: “A volte penso di poter conquistare il mondo, ma prima… Oddio, devo sfoltire le sopracciglia. E, oddio, devo depilarmi le gambe. E devo fare la pulizia del viso e tonificare la pelle“. Come si combina, dunque, il pensarsi libera con il mostrarsi fintamente nuda ma aderente a questo genere di routine beauty care? Passare dal parrucchiere per un rapido aggiornamento della capigliatura alla tendenza del momento – un box bob già ricercatissimo – prevede la convalida di una delle battaglie settimanali se non quotidiane a cui una donna deve prendere parte, volente o meno: l’aspetto fisico. Chiara Ferragni appare allora più che affrancata, padrona. Niente di male, ma questo tipo di padronanza non è la diretta conseguenza della sicurezza in sé stessi, dell’indipendenza, della libertà o dell’autonomia; ha più a che fare con la capacità di acquisto servizi e tempo da dedicargli perché siano solo un piacere e non un ulteriore aggravio di cose da fare per incontrare il consenso di qualcuno o di se stesse, per nascondere l’umanità, la discendenza dalle scimmie, la testa e l’agenda presa da altre cose. Pensandoci libere, chiediamoci: saremo mai libere, per un giorno e in pubblico, di essere fuori moda e fuori dai canoni vigenti senza odiarci o essere odiate, senza dover tranquillizzare nessuno? Ferragni indossa ancora un abito degno di nota: quello che lei stessa, sui canali social, presenta ora come il vestito contro l’odio, mostrando però il dito medio. La didascalia dice: “Con questo abito peplo portiamo sul palco del teatro Ariston alcune delle critiche rivolte a Chiara sul suo aspetto, sul suo corpo e soprattutto sulla sua libertà di sentirsi donna oltre che mamma. Le frasi di disprezzo ricamate in perle nere sono le vere offese che ogni giorno gli haters rivolgono alle sue foto”.

Per Chiara Ferragni il vestito è il messaggio e paradossalmente è più forte, c’è più da dire e di che ragionare di quanto succede con il monologo. La lettera a se stessa bambina, in cui la parola insicurezza ricorre più e più volte, riassumibile in “non temere, è andato/andrà tutto bene” ci dice principalmente due cose: la prima, che Ferragni è consapevole del target a cui si rivolge e che ricambia con affetto; la seconda, che è una giovane donna di successo e nel corso degli anni si è conquistata affermazione, attenzione e consenso da parte del pubblico, ma la notorietà in bene o in male che l’ha portata sul palco del festival l’ha raggiunta proprio perché la sua figura aderisce a certi schemi, risponde ad altri. Sa le regole del gioco, insomma, e fossero anche solo quelle della moda e della comunicazione, le rispetta anche quando vorrebbe sovvertirle. 

Bordello Story, se fosse possibile fare un film dal mio 2019

Qualche settimana fa ho rivisto “La meglio gioventù”, sostanzialmente perché avevo bisogno di ricondurre i miei drammi personali alla storia italiana mirabilmente interpretata da Luigi Lo Cascio.

(ciao Luigi Lo Cascio, il tuo sorriso nelle avversità mi tormenta dagli inizi del Duemila, insomma ormai quasi vent’anni).

La maggior parte dei miei contatti Facebook piangeva su Marriage Story, mi arrivavano messaggi pvt in cui mi si diceva che Scarlett Johansson mi somigliava molto in quella pellicola o il contario, io somigliavo molto a Scarlett Johansson in quella pellicola, probabilmente perché Scarlett Johansson ha un taglio di capelli orribile, indossa vestiti sformati color beige, ha idee confuse su se stessa e piange per tre quarti del film. A questo proposito: dire a qualcuno che assomiglia a Scarlett Johansson durante una crisi non è un gran complimento. Inoltre, ho visto il film e posso affermare che: 

a) i due sono dei principianti a livello di litigi, la loro scena madre è il mio pezzo di apertura;

Come sarebbero andate le cose con me.

b)avessi i soldi per prendere tutti gli aerei, pagare tutti gli avvocati e cambiare tutte le case che cambiano i protagonisti, ma quale crisi, seriamente: invece dei documenti per il divorzio, io avevo già messo in mano a mio marito il numero di una baby-sitter e poi una bella letterina che annunciava la mia partenza per due mesi alle Maldive pagati da lui. La lettera fa così, leggetela con la voce impostata ma incrinata dal pianto:

Caro amore mio, ti amo dalla prima volta che ti ho visto, probabilmente ti amerò per sempre. Ma. Ma hai fatto la palla. Le critiche sono l’unica cosa che ti viene spontanea e, per il resto, mi dispiace dirtelo, ma sei emotivamente stitico, infatti il film si chiude solo quando tu piangi mentre io lo faccio dall’inizio del film, cosa che trovo assai sessista: me l’avessero detto prima, t’avrei dato un bel calcio negli stinchi e via. Sai com’era bella una scena di me che ti prendo a calci in culo per tutto l’appartamento dicendo che è una mia idea per la tua performance teatrale? Comunque, mentre tu vedi un terapeuta, io ho urgente bisogno di bere latte di cocco da una noce di cocco, farmi di nuovo bionda, comprarmi anche un paio di tacchi che non hai idea e pareggiare il conto delle corna. Poi vediamo tutto il resto, intanto salutami Kramer contro Kramer nella versione for dummies, ci vediamo poi.

Dunque ho visto “La meglio gioventù” e passato quattro ore circa – era la versione ridotta su Amazon Prime – a piangere moltissimo. Piangere moltissimo per me significa lacrimare silenziosamente tirando su con il naso e cercando di non morire soffocata dal mio stesso muco (sì, fa un po’ schifo, ma non sono Chiara Ferragni, so di non “piangere in maniera carina” cit.)(Ho visto anche Unposted di Chiara Ferragni, sì, e lo trovo meglio di Marriage Story come trama e colonna sonora). Ho terminato la visione della serie capolavoro di Marco Tullio Giordana, la nostra versione dell’Heimat tedesco (tu che mi leggi e sai cos’è l’Heimat, esisti davvero? Inizio a dubitarne) e ho iniziato a ragionare sulla mia vita.

Sono terribilmente sensibile ai decenni. Ricordo ancora con terrore lo spot della Rai nel 1989, in cui si invitavano i gentili telespettatori a cambiare decennio insieme. Purtroppo non ho più sei anni, quindi non posso nascondermi sotto le coperte nella camera da letto di mia zia. In più c’è il fatto che l’anno di grazia 2019 ha fatto talmente schifo che certe volte mi sono fatta non schifo ma pietà da sola. Posso ricondurre il tutto a dinamiche storico-sociali-familiari, ma non ho le mie classiche, bellissime, serenissime, superzen illuminazioni serafiche sulla vita, quanto la consapevolezza fisica che la vita mi ha pigliato a calci in culo e se ho fatto qualche passo avanti è stato per l’onda d’urto. Perché non esiste, dunque, una trasposizione filmica? Scarlett Johansson in fondo è già lì pronta, basta farle crescere i capelli o metterle le extension, e stiamo apposto con la protagonista, i costumi e la congiuntivite.

BORDELLO STORY

Regia, soggetto e sceneggiatura di Raffaella R. Ferré

Il film comincia a gennaio 2019 con Scarlett e il marito, interpretato da Mark Ruffalo sullo stile Avengers Endgame, che cambiano casa. Sì, so che Mark Ruffalo in Avengers Endgame impersona l’Incredibile Hulk. Comunque, la casa è piena di luce, viene scelta soprattutto per questo: il modo in cui il sole si riflette sul bel pavimento in legno scuro assai rovinato, l’ombra rosa che ha la meglio nel pomeriggio; la casa è anche vuota e – finalmente – ha delle porte – ben 5 in luogo delle 2 presenti nella vecchia! – e forse per questo sembra immensa anche se non lo è. Arredarla prende circa 80 minuti di un film che ne dura 120, durante i quali i protagonisti non fanno altro che tentare di non uccidere la tizia di Ikea Afragola che gli fa da consulente. Poi si rassegnano, chiedono la consulenza online, Scarlett e il tizio in vivavoce dall’accento emiliano si intendono subito e, colpo di scena, le dà la notizia dell’esistenza di un mobiletto dalle magiche misure 30 di larghezza e 60 di profondità con cui completare una bellissima cucina mignon in materiale riciclato e non inquinanante ben prima che nascesse la moda dei Friday for Future. Foreshadowing su Scarlett che disegna con il CAD la cucina, tentando diversi stili: quello classico con anta Bobdyn in colore azzurro polvere che però fa troppo casa di Barbie e quindi viene scartato; quello moderno, anta Kungsbacka bianco non lucido per i pensili, nero non lucido per la base con carello in legno così può giocare a vincere Masterchef ogni volta che cucina. A sostegno della cosa, Scarlett indossa anche il grembiule del Pressure Test.

Qui una prova per esigenze di scena

La cosa si fa, però, pericolosa quando la donna inizia a sviluppare una singolare affezione per i nomi di ogni singolo componente del mobilio svedese, dalle tende a pacchetto Ringblomma a tutti gli Ursta che ammorbidiscono la chiusura dei cassetti, fino a maturare una certa affezione per la collezione Hemnes. Invece di tentare la scalata al colosso dell’arredamento scandinavo, Scarlett trova edificante punzecchiare suo marito sui quadri da appendere, che letto prendere, quale divano. L’unica cosa su cui concordano sono le librerie a tutt’altezza. Lei vorrebbe ridipingere una parete, chiedere ad un’amica vignettista bravissima di farci su una scritta – la più gettonata è “La vita è un varieté” e se tu che mi leggi conosci il verso successivo ti stimo, ma qui sono certa che esisti e la cosa non mi stupisce -; lui è invece nella fase minimalismo giapponese dopo Hiroshima, ergo le pareti restano spoglie se non per due lavagnette che vengono aggiornate settimanalmente da lei con i gessetti colorati: recano la lista della spesa, disegnini e frasette motivazionali. La cosa ha il suo culmine nel mese di aprile/maggio in cui avviene effettivamente il trasloco, condito dalle lacrime di lei per la casa che lascia (qui lo spin-off) e dalle bestemmie di lui per la quantità di roba accumulata in 7 anni e da impacchettare e trasportare con l’aiuto della ditta Papillon (riferimenti cinematografici a go-go) composta da un gentilissimo uomo di cui non ricordo il nome, forse Francesco, e il suo treruote. L’arredamento viene composto da una squadra di slavi capitanata da tale Adrian che, per mezza giornata, qualsiasi dubbio abbia, chiama “Signora” alla stessa identica maniera in cui chiamerebbe Gesù Cristo chiedendogli il perché della fame nel mondo. Scarlett non se la prende per la cosa, anzi, si appassiona al lavoro dei baldi giovani dell’est e alla fine Adrian la invita a fumare una sigaretta sul balcone. Il momento illuminante, è, infine, quando Scarlett va a comprare il bidet nuovo, ma giacché non dispone di auto, si carica nella macchina del negoziante insieme al suo nuovo amico.

Qui le foto dal set. Nella prima Scarlett dirige i lavori, nella seconda si ciba a terra perché non ci sono le sedie, nella terza compare il caro amico bidet, nella quarta Scarlett è molto felice di non si sa bene per cosa poiché era a lavoro (e quella una foto per mostrare ad un collega che finalmente disponeva di una scrivania e una porta da chiudersi alle spalle).

Il film potrebbe finire qui, con la prima notte in cui la coppia dorme nella casa nuova: è quella in cui trasmettono l’ultima puntata di Gomorra – La serie. Effettivamente i due dormono nella casa nuova per guardare l’ultima puntata di Gomorra – La serie. Nella prima casa, si erano decisi a trasferirsi per guardare la finale di Sanremo, quindi forse c’è un miglioramento o una morale, del tipo: vedi, le cose cambiano, cambia la scenografia dei palazzi fuori dalla finestra, ma noi no e teniamo botta ormai dal 2005 nonostante i palinsesti televisivi. Musica, precisamente Domenica di Coez – canzone che i due ascoltano molto – , e titoli di coda su lui che ordina la cena su Just Eat perché non hanno ancora consegnato il frigorifero.

THE END

Purtroppo però il 2019 non è un film con una sua durata e, potenza delle storie, un arco narrativo, ergo, la cosa continua, il racconto no. Ci sono poche cose con cui sono abbastanza in pace da poterle raccontare o verso cui ho maturato il distacco necessario per farne una storia e anche una risata. Scarlett dovrebbe vedersela con lo stress accumulato, i conti, i bordelli delle ultime cose, gli scatoloni da sistemare, tutto adeguatamente giustapposto al lavoro e a una situazione meteo inclemente fino al 7 di giugno. L’arrivo dell’estate non farebbe che complicare le cose, Scarlett si sentirebbe addosso pochissime energie e tantissimo da fare, senza sosta, mai. Alcune sono cose in copione e lì, come dire, anche se prende più paccheri di Rocky in Rocky 1-2-3 e 4 (Rocky si può vedere solo fino al numero 4), alla fine se la cava, deve cavarsela, anche quando i paccheri arrivano da persone da cui proprio non se lo aspettava. Altre cose invece no, altre cose vengono fuori dal nulla e cambiano improvvisamente il genere della pellicola, incendiandola nel caldo di agosto al Cardarelli, pure le cose da fare bruciano, insieme ai riferimenti cinematografici. Poi, sarà stato il cambio di temperatura, a un certo punto la paura si solidifica, Scarlett la vede, la sente, le si innesta sulla schiena in una forte discopatia che, le viene detto, potrebbe portarla alla zoppìa, alla paralisi, bisogna operare, forse, mo vediamo. Lei le tocca con mano – la schiena, le gambe e la paura – , e chiede finalmente la famosa mano che tutti si pregiano di volerle dare da anni. La mano che stringe alla fine è quella di un medico che le dà prima una cura da cavallo e le fa poi un’iniezione spinale di cortisone che non risolve il problema ma la rimette in piedi; la mano che tiene, alla fine, è la sua, per farsi i complimenti, più che altro, sulle saggissime decisioni che è capace di prendere (è ironico).

Nel 2019, oltre a quanto detto fin qui riducendolo ad una fiction, ho:

1) sfanculato una persona che mi ha rovinato le uniche due serate buone in 365 perché non l’avevo informata in diretta dell’aperitivo riuscito chissà come con un’altra persona e di cui era venuta a sapere perché aveva un profilo fake su Instagram (questo, portato nella versione filmica sarebbe un thriller meraviglioso);

2) lavorato senza sosta, mi pare bene, credo sia l’unica cosa che m’è riuscita;

3) dormito davvero credo 3 notti, me le ricordo perché mi svegliavo contenta la mattina, stupita di quanto mi sentissi sonnacchiosa e riposata;

4) pianto assai, sicuro più di Scarlett Johansson;

5) cucinato un botto, come se dovessi recuperare le settimane in cui, causa assenza suppellettili, non l’ho fatto.

6) inviato email e messaggi a tutti quelli che mi avevano detto di farlo, che c’erano sempre, avrebbero fatto qualsiasi cosa in caso di mia necessità, no matter what e quanto tempo è passato;

7) ritrovato il mio compagno fidato panico un pomeriggio su via Luca Giordano in cui non mi ricordavo più dov’ero e cosa stavo facendo;

8) apprezzato moltissimo chi, nonostante tutto, è stato capace di farmi ridere e sorridere, di sorprendermi, di preoccuparsi genuinamente per me (e cioè senza chiedere qualcosa subito dopo);

9) apprezzato ancora di più chi mi ha dato il braccio o mi ha raggiunto con i suoi piedi quando i miei non erano capaci.

10) Pensato e creduto fortissimo che voglio restare, anzi, tornare ad essere, una che parla in faccia, che dice le cose, che ha dolcezze e incazzature, invece di starmene muta e zitta da un canto.

Arrivo a questa fine anno cercando di riportare tutto in scala, dirmi che è solo un momento e non una vita intera, anche se, complice la fine del decennio, mi pare proprio così. La verità è che nel 2018 mi ero sentita finalmente responsabile di me stessa, mi ero detta che a nessuno tocca il compito di prendersi cura di te se tu per prima non lo fai, e mi ero rassegnata a prendermi la mia quota parte di merda, colpa e solitudine per come erano andate le cose nel 2017, nel 2016, nel 2015 e anche in parte del 2014, anno in cui la morte di mio padre dopo crudele malattia m’aveva portato a pensare che non potesse più succedermi niente di male, visto che il male era già successo e stava tutto da qualche parte nel mio cuore, come un cane nero, a mangiarselo. Invece, in questa prospettiva malamente dimenticata, il 2019 ha fatto da Armageddon: ho perso un’altra persona a me carissima, il cane è diventato lupo famelico e  per il 2020 il mio unico proposito sarebbe dormire per un paio di mesi con la tv che manda a palla Ocean’s Eleven, film di cui sono assai grata perché DIO SANTO, è puro intrattenimento e non piange nessuno, grazie Steven Soderbergh, ti farò una statua.

La verità è che ho una paura fottutissima di qualunque cosa mi aspetta e non lo dico per:

a) farmi consolare;

b) ricevere un qualche messaggio motivazionale; 

Lo dico perché è vero. E dire la verità, su me stessa, sulle cose e le situazioni che vivo, l’ho imparato nel 2019, è l’unica cosa che mi resta, forse perché non sopporto più le stronzate. Nel corso di questi ultimi 10 anni ho viaggiato molto per mezza Europa con una puntatina nel sud delle Americhe e anche da lì, che fossi su un battello nel Mar Baltico o nel cortile di un albergo di l’Havana, ho trovato il modo di fare una telefonata, inviare un messaggio a chi era dall’altra parte del mondo tenendo conto del fuso orario e non per fargli la palla, ma per fargli sentire il vento o la parlata spagnola. Nessuno ha ricambiato il favore, neppure quando il favore gli è stato chiesto. Vorrei che questo non meritasse un menzione, ma la merita: arrivo al 2020 con la consapevolezza che ho dato molto molto spazio e molto molto tempo e attenzione e cura a persone che erano, per me, la priorità, mentre io restavo e resto un’opzione. Non fa niente, però questo mi ha cambiato molto, e io avrei preferito restare com’ero.

Di questi tempi, dieci anni fa, avevo 26 anni, m’ero appena laureata, lavoravo in una tivù locale, portavo scaldamuscoli sopra gli stivali e gambe nude anche sul motorino. Credevo molto all’amicizia, all’amore, ai sogni e ai concetti astratti in generale. Credevo, ad esempio, che in carcere dovesse esserci un ufficio relazioni con il pubblico. Fa ridere? Rise molto la persona a cui lo dissi, stupendomi moltissimo. Ero così:

Ora sono così.

foto di Mariagiovanna Capone

Non so quanto e se sono cambiata fisicamente, magari non più di tanto. Il conto degli anni che ho è semplice, anche se me ne sento 100 di più. Odio dovermi mettere le scarpe perché la schiena mi fa assai male, ma quando le metto e decido di essere più forte del dolore, sono capace di fare chilometri prima di fermarmi. Resto una che va veloce, ma se ho maturato sarcasmo e cinismo, diplomazia all’occorrenza e capacità di parlare come se volessi prendere a calci qualcuno quando serve, l’ho fatto solo perché costretta da altri e dalle circostanze. In questi anni ho sempre sperato che, davanti al mio cuore esposto e squadernato, ci fosse qualcuno capace di mostrarmi il suo: a volte è successo, altre no. Io ho imparato a vivere e andare avanti in entrambi i casi, sempre buttando il cuore oltre l’ostacolo come se non mi servisse più. Stavolta sono rimasti solo loro, una serie infinita di buche e transenne e salti da fare: il mio cuore, chissà dove l’ho lanciato, sicuro avanti. Mi tocca raggiungerlo, mi sa, riprendermelo, ficcarmelo tra le costole e non lasciarlo più andare. E niente: ci vediamo lì, tu che mi leggi: ci conto.

Ragazza, dove credi di andare? Piccole cose che possono salvarti durante un trasloco

In questa foto, io, la maglietta di Morrissey, il divano, estate 2018

Quando i treni della metro fanno finalmente la loro comparsa gialla sul fondo della banchina, vi è mai successo di avvertire lo spostamento d’aria nella galleria in piena faccia, lo stappo uguale identico a quello di una bottiglia? Spero di sì, perché è un bel momento. Qui, però, ad essere stato preso, agitato, stappato non è lo spumante, ma tutta la mia vita, roba che entra più o meno comodamente in una ventina di scatoloni e un bilocale.

Io credevo d’avere il trasloco nel sangue. Credevo, più precisamente, d’avere una laurea in distacchi da cose e persone, confermata anche dal quadro astrale. Il fatto è che i miei avranno cambiato casa, con me al seguito, almeno 5 o 6 volte da che ho memoria e farlo in un paese il cui centro si gira in 10 minuti ad andare lenti credo sia una vocazione. Io da sola l’ho proseguita: ho impacchettato le mie cose per portarle altrove almeno altre 4 e senza mai aver bisogno di una ditta che s’occupasse della cosa, solo di qualche amico fidanzato parente automunito. Di ogni casa in cui ho vissuto, ricordo la sensazione a starci dentro ergo, so dire:

1) del caldo asfittico pieno di polvere della mansardina in cui ho abitato mentre facevo il liceo, al piano di sopra di casa dei miei ben contenti d’avere me e le mie richieste di silenzio e calma ad una scala di distanza. In quella mansardina, passai la notte prima degli esami di maturità a leggere il Marchese de Sade e avevo un poster autografato da Pierre Sorlin e Simona Colarizi, questo a testimonianza della mia secchionaggine inquieta e ragazzina;

2) del corridoio lunghissimo e molto Shining di un appartamento al primo piano di via Tenente Nastri in Lancusi del fatto che ogni volta lo facevo correndo anche se non avevo alcun posto in cui correre a parte la mia stanza tornando da una lezione d’informatica all’Università;

3) del salotto del mio primo appartamento napoletano al Rione Alto, quando facevo l’Accademia di Belle Arti: le poltrone e i divani erano verde fluo, di una stoffa che pungeva a sedertici su d’estate e che urlava “ciao, vengo dritta dritta dagli anni Sessanta”. Scelsi questo salotto, o il salotto scelse lui per me, come ambientazione di un racconto. Il racconto diceva:

“Nel soggiorno trovarono un pianoforte e molti album di foto lasciati, forse dimenticati, dai proprietari. Erano stampe degli anni sessanta in bianco e nero ed il soggetto era quasi sempre una donna con i capelli raccolti in una crocchia lenta ma molto composta. A Luisa pareva un buon segno che la casa fosse stata messa su e poi abitata da una bella donna e da un uomo tanto innamorato da fotografarla con cura ad intervalli tanto regolari da poterci seguire l’avvicendarsi delle stagioni, ma Antonio non ne era convinto: « Farsi un’idea della sua bellezza è difficile – faceva – non sta mai voltata di faccia!». Aveva ragione: la donna stava sempre girata d’un quarto come una che s’è mossa di scatto ed ora sta tesa a guardare qualcosa fuori la carta kodac, così la foto pareva non avere soggetto oltre i nodi precisi dei suoi capelli. «Non capisci: è la fotografia del suo punto di vista», gli rispondeva allora e già s’immaginava il marito, il fidanzato, l’amante dietro il collo della giovane coi capelli raccolti e ordinati, si figurava la sua ansia di capire come lei vedeva il mondo e la casa e le mura pulite, il palazzone, il panorama dal balcone, gli alberi della strada che crescevano ancora dritti e con le radici contenute nei recinti. Erano già troppo piccoli. Un giorno era tornata a casa prima del solito e aveva deciso di non uscire più, come se il mondo fuori non avesse niente più da dirle o il tono giusto per dirle qualcosa. Aveva fatto scattare appena la serratura e s’era seduta sulla poltroncina verde a sfogliare l’album del proprietario e della moglie del proprietario. C’era una foto che le pareva di non aver ancora visto: sempre lei con i capelli a crocchia, sempre lei a guardar fuori, ma stavolta, oltre il corpo appena delineato, la linea del collo e delle ciglia, si vedeva anche la terra e il mare ed era campagna, con la città lontana. Luisa allora era andata di corsa ad affacciarsi dallo stesso punto e facendo sbattere le porte aveva aperto tutte le serrande e i doppi vetri. Ma il mare non c’era più: se lo erano mangiati i cani che cacavano sulla strada, i ferri e la ruggine, i motorini e i palazzi“.

ps: a pensarci bene, ho un racconto anche sulla casa di via Nastri, è qui.

Tra le canzoni che mi sembravano aver raccontato una parte della mia vita al punto che avrei voluto una parte (minima) dei diritti, c’è sempre stata, dunque, “Life for rent” di Dido che lo dice chiaramente: non ho mai avuto un posto da chiamare casa, non sono mai rimasta abbastanza a lungo da riuscire a farlo. Ma. Ma questa volta è andata diversamente. Questa volta, andarmene, traslocare, move on, ha avuto tutt’altra colonna sonora e anche altri pensieri.

Ho cominciato a scrivere questo post nel marzo del 2019 ed è alla me stessa di quel periodo che voglio dare la parola adesso, adesso che quel periodo sembra così lontano anche se è appena 2 mesi fa. Siate buoni con lei: è stanchissima, piccolissima e preoccupatissimasta e non sa, non vuole sapere, come e quando ne uscirà, ma sta sperimentando la sottile differenza tra “Okay” e “Occazzo”.

“Sono seduta al tavolo della cucina in una casa che sto per lasciare come se non dovessi lasciarla mai. Sul tavolo ho due mazzetti di fresie (bianche e viola). Lavoro. E dovrei anche consegnare un pezzo sui Sopranos. Ma sono qui e sento gli uccellini che cinguettano dietro le mie spalle. Hanno fatto di nuovo il nido sopra il cassone della persiana, ma chi c’ha il cuore di sgomberare una famiglia di passerotti? Quando c’è chi sgombera esseri umani negandogli il diritto di un posto in cui sentirsi al sicuro, è necessario essere radicali.

Cose che mi mancheranno di questa casa e che no, non posso portare con me:

il vicino che quando torna a pranzo, dopo aver fatto girare le chiavi nella porta, fischia – un fischio leggero di saluto, molto allegro – come a dire: sono qui!

La volta in cui ho bussato a casa del suddetto vicino per restituirgli delle chiavi e mi ha aperto il figlio ventenne, così convinto che si trattasse della mamma che ha spalancato la porta senza chiedere niente, in boxer, cantando Gaiola Portafortuna di Liberato, e io, per un attimo, ho pensato di accompagnarlo nel canto e nel balletto che stava facendo (uuuuuh, sott’a lunaaaaa);

Le rondini/uccellini che hanno fatto il nido sul cassone di cui sopra;

Il modo in cui il sole delle tre spacca il vicolo a metà e batte sulla ringhiera nera del balcone rendendola incandescente;

La doppia porzione di cielo che riesco a vedere dal balconcino e dalla finestra e la rapidità con cui mi sposto, alle volte, per tenerlo insieme tutto, oltre i palazzi che lo tagliano a metà;

Il finestrino della camera da letto, così piccolo che sembra quello di un aereo. Se sto stesa, da lì vedo solo cielo. Se sto in piedi, in bilico sulla scala a chiocciola, uno spicchio della collina di Capodimonte che sembra di stare in campagna;

Il chiedermi chi sono quei ragazzi sul terrazzo del palazzo che vedo dalla finestra e che ci fanno lì: sono 7 anni e non l’ho mai capito;

I primi 3 gradini della scala a chiocciola sotto la finestra, il legno scuro e lucido, il mio angolo preferito, il mio rifugio da tutto e tutti;

Il maledettissimo pavimento di listelli finto legno beige. Spiegare perché mi mancherà nonostante tutto, credo abbia a che fare con la memoria visiva dovuta alle flessioni, alle posizioni di pilates e di yoga che ci ho fatto su;

E, a proposito di memoria, i ricordi che ho qui, nelle loro testimonianze più concrete: gli oggetti dimenticati, i libri in prestito, i regali. In quale scatolone sistemarli? Quello della roba da dare via sperando faccia felice qualcun altro, quello delle cose da portare con me, perché i ricordi sono i miei e ne rivendico la proprietà, la proprietà di feste, di caffè, del cuore con cui ho aperto la porta prima ancora che qualcuno bussasse davvero? Vediamo.

(reprise)

Vediamo, già. Anche se in alcuni momenti mi è sembrato di essere intrappolata in una canzone di Claudio Baglioni – precisamente L’Amico e Domani per come, riordinando e impacchettando le mie cose, trovassi in ogni angolo una spina di nostalgia – oggi l’unica cosa che ho visto sul serio, come se si trattasse di una persona con cui fare due passi parlando del più e del meno quasi non avessimo argomenti più importanti, è il fatto che il presente non deve per forza fare debiti con il futuro e che il passato, certe volte, serve solo a dirti che se ce l’hai fatta allora, be’, col cazzo che lasci perdere mo’.

Non so se sono cambiata io o è cambiato lo sfondo o me stessa e lo sfondo siamo quelli che siamo sempre stati – e cioè mobili – e ad essere cambiata è l’angolatura da cui guardo le cose, la musica che mi accompagna mentre affronto le sfide che mi stanno davanti. Direi che sono accadute tutte e tre le cose, che sono vere tutte e tre le cose.

A parte tutti i bordelli, le incognite, le paure, il nervosismo andante, il superlavoro, l’ansia, le feste comandate che rallentavano tutto proprio quando volevo correre, al di là di chi c’è ancora, di chi non c’è più, di chi non c’è mai stato sul serio e si trovava soltanto a passare perché quel giorno non c’aveva altro da fare, ho creduto di essere felice più volte, nella casa che ho lasciato e forse la felicità è proprio quella e nient’altro: credere di esserlo.

Una domenica di maggio che giocava il Napoli sono tornata per l’ultima volta a prendere alcune cose che avevo lasciato e mi è sembrato un fatto imperdonabile che me ne fossi andata. I saluti ai commercianti della zona, quelli che nel corso degli anni mi avevano preso prima in simpatia e poi in confidenza, me li ero imposta come ci si impone una confessione, ma quel giorno, con il mio ombrellino del cazzo, sono andata a posizionarmi nel punto esatto di via Foria da cui si può vederla tutta, da un capo all’altro fin sopra la Doganella che sembra una pista d’atterraggio. Se qualcuno m’avesse chiesto, in quel momento, di disegnare su una mappa i miei percorsi degli ultimi anni, ne sarebbe venuta fuori una croce lunga, con un asse che partiva dal Museo e arrivava fino quasi alla Stadera e l’altro che dalla Ferrovia saliva sopra il Moiariello.

Eppure l’ho lasciata, la croce e la mappa della municipalità 3 che mi sembra d’aver amato più di quelli che l’amministrano: nel cestino bianco, sul tavolo della cucina, scuro e solido, compagno di migliaia di pomeriggi, quello su cui ho cominciato a scrivere questo post, quello su cui ho scritto tanto.

Ora, dopo 10 anni che sembrano volati, ora, ho una scrivania. E anche se c’entra molto poco con la storia della canzone e tanto, tantissimo con la domanda che mi sono fatta centinaia di volte negli ultimi mesi e cioè “Ragazza, dove credi di andare?“, mi viene da mettere su “Joanne” di Lady Gaga e sorridere, molto, al verso: Honestly I know where you’re going, and baby you’re just movin’ on. 

Chiedersi stabilità mentre si trasloca non è realistico. Saperlo aiuta a non prendersi troppo sul serio nel mentre.