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A Tiziano (Ferro) per il suo compleanno

Questa mia è una dichiarazione d’amore e di intenti, ragionati quanto basta per essere una volontà: quella di fare un minimo di giustizia. Su Tiziano Ferro. Non che abbia bisogno delle mie parole a supporto ma mi farebbe piacere se questo giovane uomo di trentasette anni oggi, trovandosi un domani ad affrontare uno dei dilemmi che ha cantato – uno qualunque da “e non vuoi nessun errore però vuoi vivere” a “stavo attento a non amare prima di incontrarti” passando per “ricorderò e comunque, anche se non vorrai” – sapesse quanto sono importanti per altri, me compresa.  

Dunque, cominciamo. 

Sarei io, qui, la sottoscritta, una donna istruita che ha passato fasi adolescenziali: so chi era Soren Kierkegaard, ho un libro di Almudena Grandes accanto e i piatti di ieri sera ancora da fare. Ah, ho anche più di venticinque anni che mi sembra il limite massimo consentito dalla morale pubblica per farsi un piercing o un taglio di capelli radicale color blu cobalto. Cosa che farei, per l’appunto, se non avessi raggiunto i limiti di tempo per determinate capate a muro. Il fatto è che in tutte queste facezie sta la possibilità di salvarsi la vita, o un pomeriggio o un mese intero. Un anno anche, per dire.

Sono piccolezze trascurabili di fronte agli ideali sociali e politici, stramazzano di fronte alla collettività, davanti ad un titolo di giornale impallidiscono. Sono angoli, e chi ne tiene conto quando la strada da fare è così tanta e l’unico onore sembra ormai quello di riuscire a percorrerla senza che nulla ci turbi? Io, in pratica. E Tiziano. 

Non so se avete mai osservato la gente in attesa da un parrucchiere, quando hanno già le idee chiare chiarissime e sfogliano un giornale nell’attesa di confessarle ad una specie di sacerdote della messa in piega. Non so se avete mai dato un occhio a quelli che arrivano in anticipo alla lezione di Pilates e stanno lì alla porta come fan roventi in attesa di un concerto. Non so se avete mai guardato in faccia uno che canticchia Tiziano Ferro e il suo “nanana-na-na-na“. Io sì (di nuovo), anche perché sono una di loro. 

Comunque la cosa che si vede subito, che ti permette di non sentirti a disagio e di non vergognarti a starci in mezzo, è che reclamano un diritto non sancito da nessuna legge, perché non c’è nessunissima persona che ti dica che fai bene a incazzarti, crollare, piangere e poi esser capace di tirarti su con poco, che sia una canzone o una messa in piega o un’ora di dondolamenti su un materassino di spugna.

Ad ammettere queste cose potreste passare per mainstream,vi avverto. Se non ci tirate accanto un eco-bio, un coordinamento in cui siete persone attive o una bella citazione da De Gregori non potete nemmeno passare per radical-chic. Se non avete scritto un libro con una grande casa editrice il vostro trend sarà quello di uno/a sciocchino/a. E non vi dico cosa succede se vi scoprono a guardare le esterne di “Uomini e Donne” alla ricerca degli script comuni alle coppie (senza ricordare a chi vi ha beccato che su tale cosa ci hanno fatto un convegno nel ’78, certo non riguardava propriamente Maria De Filippi e il suo lavoro di mediatrice culturale, ma cazzo, la Cognitive Scienze Society riunita a La Jolla aveva chiamato i mastri dell’Intelligenza Artificiale, psicologi, linguisti, neuroscienziati e filosofi e stavano tutti là a chiedersi scrupolosamente se le persone si comportano davvero per come si sentono di fare o se le loro facezie sociali rispondono solo a modelli socialmente riconosciuti come accettabili). 

Vi chiederete cosa c’entra questo con Tiziano Ferro. Bene. Egli è uno degli ultimi baluardi del non essere un automa. 

Il dolce caro bellissimo piccolo tesoro d’uomo qualunque orientamento sessuale egli abbia ha concesso a un botto di persone di farsi un bel pianto, una bella risata e nella maggior parte dei casi, una bella cantata liberatoria, su cose che, ci hanno insegnato, non dovrebbero essere neppure provate, figuriamoci ammesse. Oggi, per dire, è riuscito a farmi canticchiare una cosa come “il bene più segreto sfugge all’uomo che non guarda avanti mai” (ed era difficile che io canticchiassi oggi, voglio dirvelo). Insomma, chiedersi se una storia può andare avanti o meno, sentirsi più spaurito e perduto di un cucciolo di foca nella stagione della caccia (cucciolo di foca orfano, ndr.), temere che i tempi buoni vadano via troppo in fretta e che quelli cattivi restino invece cristallizzati a farci il cuore piccolo e secco come quello della pecora in formaldeide di Hirst in virtù della giustezza, della serenità, di un nirvana che nessuno si ricorda mai essere, in realtà, l’assenza di desiderio: vi sembra poca cosa renderli cantabili, condivisibili, in qualche modo anche giusti?

Tiziano Ferro è praticamente quello che ti soccorre e quando cominci a farti domande che metterebbero in crisi le più alte cariche dello Stato.

Davvero. Io sono convinta che anche la scissione del PD potrebbe essere ampiamente risolta da Tiziano. Tipo che chiudono Emiliano, Bersani, Veltroni e Renzi in una stanza e gli mettono a palla “Ti scatterò una foto” “Potremmo Ritornare”.

  • A “Siamo figli di mondi diversi e una sola memoria che cancella e disegna distratta la stessa storia”, si guardano con gli occhi lucidi – da lontano, ognuno nel proprio cantuccio, mantenendo le distanze – ma pensano: cazzo, è vero!  Veltroni  – che è quello a cui piace fare lo splendido capace di parafrasi che gli rendono possibile fare lo stesso discorso dal 2008 senza farsi prendere a selciate -, si sta chiedendo se la canzone è molto nota e deve citarla necessariamente nel nuovo intervento o se può farlo en passant. Renzi che è più pragmatico sta inviando un messaggio su Telegram per accertarsi a) della posizione di TZN (del resto oggi sul Corriere hanno un pezzo sulle posizioni dei VIP) b) del copyright per l’utilizzo della frase come claim della prossima futura campagna elettorale c) di nuova assemblea mozione “Tiziano” in cui è possibile esprimere il proprio parere solo ed esclusivamente citando il Ferro (Renzi ha tenuto per sé la hit “Perdono” e si sta esercitando sul verso “se quel che è fatto e fatto io però chiedo scusa – regalami un sorriso io ti porgo una rosa – su questa amicizia nuova pace si posa – perché so come sono e infatti chiedo Perdono – Scusa –
  • A “Potremmo Ritornare”, anzi al verso “Ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornare” stanno cercando su internet una data del Tour che non sia ancora sold-out (purtroppo ci hanno messo un po’ di tempo perché Bersani non era sicurissimo di potersi muovere quel giorno, ma poi si è convinto, ha fatto pure una battutina puntuta tipo “Oh ragassi, non è che le correnti del PD si fermano chiudendo le finestre” e Veltroni, che intanto era già andato su Google, ha scritto “Tiziano Ferro canzone su vento corrente aria fredda” gli ha risposto “E se si alzerà il vento/lo vedremo scatenare le più alte onde in mare (…) E ci darà di più di quello che c’è stato/E quello che è passato/ E sarà tuo e mio”).

Tizianuccio (l’ho nominato talmente tante volte che siamo usciti a parenti, intanto) in pratica, è l’unico che non parla di futuro come se il passato fosse interamente da rottamare (leggi: portare fuori con la spazzatura).

E se guardiamo in prospettiva gli ultimi anni, se io stessa mi volto dalla scala di Escher su cui mi sento di stare e abbasso gli occhi, Tiziano c’era.  C’era e non mi ha mai fatto prendere sonore strafacciate a seguire consigli tipo “inciampa piuttosto che tacere, domanda piuttosto che aspettare”, mai.  C’era e se ne usciva con una canzone nuova – non so sceglierne una sola e quindi non sceglierò – a ricordarci che paure, dubbi, domande e “nanana” sono tutte cose importanti per raggiungere l’unico obiettivo a cui mi sento di aspirare seriamente e cioè: non avere mai alcun rimpianto.

Non ne ho.

E questa è l’unica cosa che riesco a dire di me con orgoglio. Assieme al fatto che sono sicura che Tiziano Ferro capirebbe benissimo cosa intendo. E mi risponderebbe:

L’amore è una cosa semplice e adesso, adesso, adesso, te lo dimostrerò.

Perché non hai bisogno di San Valentino

Ha detto che non sa se passa da te, stasera. Roba di lavoro o impegni coi suoi, l’ha detto, non hai capito. Hai registrato il non so, hai una mente allenata a farlo. La parola forse ti fa fermare nel mezzo di qualunque cosa tu stia facendo, quasi avessi sentito anche una vocetta sopra la tua spalla. Dice “ecco, ci siamo”.
Al non so annuisci, più e più volte, “dai, non far finta di non sapere che sarebbe andata così”. Vorresti ascoltare la parola no, perché la parola no è uno sparo alto nell’aria, che fa volare via i pensieri come passeri da un albero. La parola no è tua amica, di quelle che capaci di farti l’occhiolino durante un’interrogazione, prendersi 2 e tornare a posto come se non fosse accaduto niente. Solo una domanda per cui non eri preparata. Solo un tentativo. Solo un no. Ma la parola no non si fa sentire spesso. Altrimenti sarebbe troppo semplice, ti sa.

Sei andata a scuola in un paesino in cui il giorno di San Valentino coincideva con quello delle celebrazioni per il santo patrono, Sant’Antonino. Usanze le cui ragioni e scienze non avevano alcun senso oltre i 10 km. Le ragazze che venivano da fuori la usavano come scusa per fingere coi genitori di andare a scuola come al solito e invece passare la giornata con il fidanzato. Il fidanzato, la pomposità del termine, la voce delle tue compagne di classe nell’indicartelo da lontano -presentazioni mai, non in un liceo composto dal 90% di piccole donne simili le une alle altre -, un ragazzetto che ti sembrava grande e scafato come oggi ti sembrerebbe tuo nonno, l’espressione da Marlon Brando in Fronte del Porto ignorando l’esistenza di entrambi. Tu il fidanzato non ce l’hai. Sei innamorata, certo, ma come ti innamori tu, sedendosi accanto ad un tizio sul bus, uno che va al professionale e come unica credenziale esibisce più timidezza di te. In ogni caso, tua madre ha frequentato il tuo stesso liceo, sa delle usanze, sa del Santo patrono e la prima volta che tenti di fregarla ti dice che ti ritirerà da scuola, meglio a casa che in giro con chissà chi. Oggi tua madre non ricorda di averti mai detto una cosa del genere. L’ha fatto. Non so, dice.

Entri in una chiesa per lo stesso solito motivo: è aperta. Una chiesa aperta è sempre un invito, non da Gesù Cristo o Dio o chi di per esso, ma dal fresco, il fresco di una chiesa semibuia con le statue dei santi e per ogni santo una specializzazione, casi disperati (Santa Rita), giornalisti (San Francesco di Sales). In questa, giacché sei in Irlanda, non sai chi aspettarti e un po’ ti stupisci e ti pare un segno (o un simbolo?) il fatto che nella Whitefriar St Carmelite Church all’angolo tra Aungier Street e York Street, tu ci abbia trovato San Valentino, patrono degli innamorati, con tanto di sacra reliquia. Hai un momento di trance mistica in cui:

  • preghi
  • credi
  • giuri

Per i prossimi 5 anni ti dirai che non vale né la preghiera né ciò che hai creduto, non il giuramento. Perché eri all’estero e questo San Valentino, ora che sei tornata a casa, è fuori giurisdizione. La vostra comunicazione è disturbata come un’interurbana: o non gli arrivano le tue domande o sei tu che non senti le sue risposte. Ha detto forse o mi sbaglio?

Cosa vuoi per San Valentino. La colazione del bar. A casa. Chiunque sia stato ad aver avuto per primo l’idea della colazione a domicilio come regalo – in una scatola di un rosa che fa male agli occhi, in un cuore blu di vellutino infeltrito che manda scariche elettriche – è un genio. La ricorrenza è incidentale. Una scusa. Un buon motivo. Non hai bisogno di San Valentino, no. Hai bisogno di un caffè anzi due, se c’è un cornetto alla marmellata ben venga.

(una volta conoscevi un tizio che aveva un preciso rituale: dopo la prima notte in compagnia di una ragazza nuova le mandava la colazione accompagnata da un bigliettino: questa è la prima mattina insieme. La cosa funzionò finché, come in un riflesso condizionato, inviò la colazione per due volte, alla stessa ragazza. Lei era una persona attenta).

Sanremo: 5 canzoni da conoscere per fare il tipo sui social

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità con riferimenti alla cultura popolare italiana e le sue implicazioni sociali alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust pronunciando solo ed esclusivamente la frase “trottolino amoroso dududù dadadà” che se ci è riuscita Maria De Filippi potete farlo pure voi.

Un tempo la prima regola dello spettatore del Festival di Sanremo era non dire a nessuno che hai visto tutte e 5 le serate del Festival di Sanremo. Tipo Fight Club, ma con Pippo Baudo al posto di Tyler Durden. (in foto, eccolo mentre sventa un tentativo di ricerca del proprio animale guida). 

Un tempo, quando ti piaceva una canzone eseguita rigorosamente per la prima volta sul palco dell’Ariston, le opzioni erano due:
a) un Mixed by Erri su cassetta verdognola;
b) registrazione homemade su Tdk da 90 minuti dopo scandagliamento su frequenze radio;
L’ascolto, in entrambi i casi, era a volume bassissimo nel tuo walkman, sia mai che qualcuno, sull’autobus che ti portava al liceo, avesse l’udito fine.

Un tempo, l’unica ammissione possibile era la super ospitata dell’artista straniero di tendenza: Madonna che canta “Take a bow” nel 1995 imbardata come la Signora Coriandoli. O i Take That – perdonatemi, è un ricordo personalissimo- che nel 1996 rispondono alle domande delle fans in deliquio me compresa ma muta, seduta a terra nel salotto di casa sotto lo sguardo perplesso di mio padre, il dito indice pronto al rec su vhs, inconsapevole del fatto che un giorno avrei trovato tutto su YouTube.

Eccovi un video del momento in cui il mio cuore adolescente ha fatto crack per la prima volta. Dite ciao. Per approfondire la sua conoscenza, cliccate pure qui

Chi prendeva un treno e si portava in Liguria, nella stragrande maggioranza dei casi ci era costretto. O aveva meno di 20 anni, aveva visto molte volte “Sposerò Simon Le Bon” e pensava che scapezzarsi e spezzarsi una coscia appresso ad un tizio che sta sui poster del Cioé fosse una cosa estremamente romantica nonché il primo necessario atto per una vita sentimentale edificante (poi ci chiediamo perché stiamo messe come stiamo messe).

Insomma, un tempo, come avrete capito, Sanremo era un fatto da sfigati costretti al ludibrio acustico dalla scarsa controprogrammazione, non c’era Netflix e, soprattutto, soprattutto nessuno faceva team per commentare pubblicamente il vestito di tal dei tali, la faccia messa malissimo di un big che ha ormai superato i 50 e l’abbronzatura di Carlo Conti con hashtag apposito. Adesso ho gente che mi chiede se anche quest’anno a casa mia si fa la diretta social. Sì, la facciamo. Ovvio. Però, a parziale risarcimento del mio cuore adolescente infranto, bisogna che siano ristabiliti alcuni equilibri cosmici.

Perché per commentare davvero Sanremo e fare il tipo/tipa su twitter e facebook, ci sono delle canzoni misconosciute che bisogna conoscere fino all’ultima nota parola fraseggio mirabilmente diretto da maestri quali Beppe Vessicchio. Cominciamo.

Margherita non lo sa, Dori Ghezzi, Sanremo 1983 

Qualche tempo fa ero in un locale milanese, nome “C’era una volta una piada” e anno percepito 1980 e rotti. Partì questa. Mezzo locale canticchiava, e anche io. Non so come e perché la conosco, all’epoca dell’esibizione dovevo avere una settimana di vita al massimo. Però Margherita che continua a non trovarsi nello specchio, veste male, dice “niente di speciale” e si nasconde dietro un’altra sigaretta su ritmo sincopato, ecco: di quante di noi è un identikit affidabile?

Donatella Milani, Volevo Dirti, 1983 ancora 

Rivalutate la cara tizia che si presenta in tuta verde e gialla, cespuglio in testa, ammette “ho fatto l’amore con te senza chiederti niente di me” e si classifica al secondo posto. È vostra amica in casi di capate sentimentali, friendzone e appuntamenti presi su Tinder. Al pari di “Amici come prima” di Paola e Chiara, Sanremo 1997.

Anna Oxa e Fausto Leali, Sanremo 1989

 

Lo o che questa canzone è conosciuta sicuro più delle altre, però un ripassino fa sempre bene. Ho scelto questa coppia che se l’è giocata alla grande coi Jalisse, Sanremo 1997  perché condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dai 6 agli 8 mesi. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia che le comporta ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”. L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Rudy Marra, Gaetano, Sanremo 1991

Molto prima di Calcutta, c’era lui, una specie di Luca Carboni sfortunato che canta “e adesso c’hai un figlio Gaetano, e adesso a lui che cosa gli diciamo“. Trovate Rudy Marra, ditegli che non è colpa sua se all’epoca l’indie non era di moda.

Antonella Arancio, I ricordi del cuore, anno del signore 1994:

Questa è la canzone che racconta con dovizia quello che penso ogni volta che mi prende male nonché il mio intero 2016. Se l’avesse cantata Laura Pausini sarebbe stata un classico mondiale. Invece la cara, dolce Antonella con il cocco nei capelli (la cofana l’avrebbe riportata in auge solo Amy Winehouse) gli orecchini a forma di crocefisso (si portavano, non fate finta di no) e il completo camicia bianca + gilet con gli alamari, dopo averla incisa in spagnolo – Recuerdos del alma – e aver avuto ottimo successo in America Latina è scomparsa.

Alessandro Mara, Chiara, Sanremo Giovani 1995 

Parlo a te, ragazza che all’epoca era nel meglio dell’adolescenza e adesso c’ha trent’anni and so on. Pensavamo che Alessandro Mara ci avesse fatto la radiografia. Pensavamo che Chiara che si nota tra la folla/ Chiara che ha imparato a stare a galla fosse la migliore versione che potevamo dare di noi stesse. Pensavamo, soprattutto se nate nell’hinterland vesuviano, che si parlasse di noi al verso “un fiore di campo in cima ad un vulcano“. Ancora oggi ci chiediamo: “è un dono o un difetto essere trasparente?”. Cercasi uomo capace di mettere tutto in musica.

Bene, ci avviamo alle conclusioni. Che sono:
1) Se conoscevate queste hit prima di questo post, siamo anime potenzialmente affini;
2) Se ve ne vengono in mente altre, tipo i Quinto Rigo con Bentivoglio Angelina, siete in buona compagnia.
3) Se dovessero porvi la domanda più in voga degli ultimi anni, e cioè: “Perché Sanremo è Sanremo?” con fare ironico o leggermente perculante, c’è solo una risposta possibile. La sapete già.

È: Ta da dan!