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Sanremo: 5 canzoni da conoscere per fare il tipo sui social

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità con riferimenti alla cultura popolare italiana e le sue implicazioni sociali alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust pronunciando solo ed esclusivamente la frase “trottolino amoroso dududù dadadà” che se ci è riuscita Maria De Filippi potete farlo pure voi.

Un tempo la prima regola dello spettatore del Festival di Sanremo era non dire a nessuno che hai visto tutte e 5 le serate del Festival di Sanremo. Tipo Fight Club, ma con Pippo Baudo al posto di Tyler Durden. (in foto, eccolo mentre sventa un tentativo di ricerca del proprio animale guida). 

Un tempo, quando ti piaceva una canzone eseguita rigorosamente per la prima volta sul palco dell’Ariston, le opzioni erano due:
a) un Mixed by Erri su cassetta verdognola;
b) registrazione homemade su Tdk da 90 minuti dopo scandagliamento su frequenze radio;
L’ascolto, in entrambi i casi, era a volume bassissimo nel tuo walkman, sia mai che qualcuno, sull’autobus che ti portava al liceo, avesse l’udito fine.

Un tempo, l’unica ammissione possibile era la super ospitata dell’artista straniero di tendenza: Madonna che canta “Take a bow” nel 1995 imbardata come la Signora Coriandoli. O i Take That – perdonatemi, è un ricordo personalissimo- che nel 1996 rispondono alle domande delle fans in deliquio me compresa ma muta, seduta a terra nel salotto di casa sotto lo sguardo perplesso di mio padre, il dito indice pronto al rec su vhs, inconsapevole del fatto che un giorno avrei trovato tutto su YouTube.

Eccovi un video del momento in cui il mio cuore adolescente ha fatto crack per la prima volta. Dite ciao. Per approfondire la sua conoscenza, cliccate pure qui

Chi prendeva un treno e si portava in Liguria, nella stragrande maggioranza dei casi ci era costretto. O aveva meno di 20 anni, aveva visto molte volte “Sposerò Simon Le Bon” e pensava che scapezzarsi e spezzarsi una coscia appresso ad un tizio che sta sui poster del Cioé fosse una cosa estremamente romantica nonché il primo necessario atto per una vita sentimentale edificante (poi ci chiediamo perché stiamo messe come stiamo messe).

Insomma, un tempo, come avrete capito, Sanremo era un fatto da sfigati costretti al ludibrio acustico dalla scarsa controprogrammazione, non c’era Netflix e, soprattutto, soprattutto nessuno faceva team per commentare pubblicamente il vestito di tal dei tali, la faccia messa malissimo di un big che ha ormai superato i 50 e l’abbronzatura di Carlo Conti con hashtag apposito. Adesso ho gente che mi chiede se anche quest’anno a casa mia si fa la diretta social. Sì, la facciamo. Ovvio. Però, a parziale risarcimento del mio cuore adolescente infranto, bisogna che siano ristabiliti alcuni equilibri cosmici.

Perché per commentare davvero Sanremo e fare il tipo/tipa su twitter e facebook, ci sono delle canzoni misconosciute che bisogna conoscere fino all’ultima nota parola fraseggio mirabilmente diretto da maestri quali Beppe Vessicchio. Cominciamo.

Margherita non lo sa, Dori Ghezzi, Sanremo 1983 

Qualche tempo fa ero in un locale milanese, nome “C’era una volta una piada” e anno percepito 1980 e rotti. Partì questa. Mezzo locale canticchiava, e anche io. Non so come e perché la conosco, all’epoca dell’esibizione dovevo avere una settimana di vita al massimo. Però Margherita che continua a non trovarsi nello specchio, veste male, dice “niente di speciale” e si nasconde dietro un’altra sigaretta su ritmo sincopato, ecco: di quante di noi è un identikit affidabile?

Donatella Milani, Volevo Dirti, 1983 ancora 

Rivalutate la cara tizia che si presenta in tuta verde e gialla, cespuglio in testa, ammette “ho fatto l’amore con te senza chiederti niente di me” e si classifica al secondo posto. È vostra amica in casi di capate sentimentali, friendzone e appuntamenti presi su Tinder. Al pari di “Amici come prima” di Paola e Chiara, Sanremo 1997.

Anna Oxa e Fausto Leali, Sanremo 1989

 

Lo o che questa canzone è conosciuta sicuro più delle altre, però un ripassino fa sempre bene. Ho scelto questa coppia che se l’è giocata alla grande coi Jalisse, Sanremo 1997  perché condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dai 6 agli 8 mesi. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia che le comporta ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”. L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Rudy Marra, Gaetano, Sanremo 1991

Molto prima di Calcutta, c’era lui, una specie di Luca Carboni sfortunato che canta “e adesso c’hai un figlio Gaetano, e adesso a lui che cosa gli diciamo“. Trovate Rudy Marra, ditegli che non è colpa sua se all’epoca l’indie non era di moda.

Antonella Arancio, I ricordi del cuore, anno del signore 1994:

Questa è la canzone che racconta con dovizia quello che penso ogni volta che mi prende male nonché il mio intero 2016. Se l’avesse cantata Laura Pausini sarebbe stata un classico mondiale. Invece la cara, dolce Antonella con il cocco nei capelli (la cofana l’avrebbe riportata in auge solo Amy Winehouse) gli orecchini a forma di crocefisso (si portavano, non fate finta di no) e il completo camicia bianca + gilet con gli alamari, dopo averla incisa in spagnolo – Recuerdos del alma – e aver avuto ottimo successo in America Latina è scomparsa.

Alessandro Mara, Chiara, Sanremo Giovani 1995 

Parlo a te, ragazza che all’epoca era nel meglio dell’adolescenza e adesso c’ha trent’anni and so on. Pensavamo che Alessandro Mara ci avesse fatto la radiografia. Pensavamo che Chiara che si nota tra la folla/ Chiara che ha imparato a stare a galla fosse la migliore versione che potevamo dare di noi stesse. Pensavamo, soprattutto se nate nell’hinterland vesuviano, che si parlasse di noi al verso “un fiore di campo in cima ad un vulcano“. Ancora oggi ci chiediamo: “è un dono o un difetto essere trasparente?”. Cercasi uomo capace di mettere tutto in musica.

Bene, ci avviamo alle conclusioni. Che sono:
1) Se conoscevate queste hit prima di questo post, siamo anime potenzialmente affini;
2) Se ve ne vengono in mente altre, tipo i Quinto Rigo con Bentivoglio Angelina, siete in buona compagnia.
3) Se dovessero porvi la domanda più in voga degli ultimi anni, e cioè: “Perché Sanremo è Sanremo?” con fare ironico o leggermente perculante, c’è solo una risposta possibile. La sapete già.

È: Ta da dan! 

Don’t stop believing

Diciamo che non era un bel periodo quando lui arrivò nella mia vita.
Basti dire che tenevo la tv accesa tutto il giorno e mangiavo frutta con la buccia seduta davanti al pc, ed era agosto, ad aspettare cose che non sarebbero arrivate, non tramite connessione adsl comunque. Arrivò, invece, la sua voce, qualcosa circa un funerale da organizzare. Dice: “niente fiori, niente commemorazioni, la gente viene, saluta, mangia qualcosa e se piange cazzi suoi”.
Mi sembrava giusto.
Io i funerali non li ho mai sopportati.
E se piangi sono sempre e comunque cazzi tuoi.

Sarebbe bastato questo per dirgli grazie. Ma nel corso dei mesi successivi, quella stessa voce ha detto altre cose, ad esempio che non esiste soluzione geografica ad un problema di natura emotiva. O che ogni dolore ha un suo prezzo e il bordello è scoprirlo. O di ricordare i momenti belli, che è diverso da dire: sii cieco e non guardare il resto.

.Il mio amore per i Sopranos è nato in ritardo, alla quarta replica della serie, quand’era ormai un riempitivo da canale digitale, ma è arrivata nel momento giusto. Lui non era esattamente un bell’uomo, ma a me piaceva un botto: mi dava un senso di protezione, e questo, in quel particolare momento della mia vita, era la cosa di cui avevo più bisogno e che meno pensavo di poter provare. Non per uno così. Non per uno che interpreta un boss della mafia italoamericana che soffre di attacchi di panico ed è sessualmente compulsivo. Non. E invece sì. Sarà stata la presenza scenica o forse l’ironia, non so, ma la sua esistenza mi rincuorava tanto. Mi faceva pensare: ecco, c’è ancora un uomo, c’è ancora un attore, c’è ancora James Gandolfini.

Cosa avrebbe detto Ruskin sulla fiction a Scampia
Ovvero, tiriamo in ballo qualcuno che domani non ci ammorba con la controrisposta

Qualche anno fa, quand’ero ancora una cristiana che si applicava a cercare un perché alle cose che viviamo nelle cose che vediamo, mi capitò di leggere “Le sette lampade dell’architettura” di John Ruskin. Adesso, Ruskin era un signore inglese dell’Ottocento, e la sua interpretazione dell’arte e dell’architettura che aveva tanto influenzato l’estetica vittoriana ed edoardiana, influenzò anche me e questo ben prima che conoscessi particolari della sua vita coniugale (per i quali vi rimando alla lettura di Guillermo Cabrera Infante, o, se non avete tempo, a Wikipedia). Comunque, John (l’ho nominato talmente tante volte che ormai siamo amici) scriveva più o meno questa cosa: che non ci sono che due vincitori della dimenticanza degli uomini, la poesia e l’architettura e che in un certo senso la  seconda include la prima perché essendo reale è più potente, e che era bene occuparsi non solo di quello che gli uomini pensano ma di quello che i loro occhi vedono tutti i giorni della loro vita. Contemporaneamente, scoprivo che Gropius aveva progettato Gropiustadt, il quartiere in cui visse la sua adolescenza tormentata Christiane F. quindi hai voglia a parlare di funzionalismo socialista. 

Amai così tanto queste due scoperte che un mese dopo stavo chiedendo una tesi in Storia Contemporanea sul racconto narrativo e filmico di Napoli nel decennio Ottanta, questo perché cambiare facoltà a due esami dalla laurea non era propriamente il caso e più che basarmi sull’architettura mi conveniva interrogarmi su un’altra cosa che tutti vediamo ogni giorno: la televisione. Finì che passai un’estate a confrontare giornali del decennio ’80 con i film sulla città usciti in quel periodo. Erano produzioni a diffusione popolare, erano commedie, erano sceneggiate, era Nino D’Angelo assieme a Massimo Troisi assieme al professor Bellavista di De Crescenzo,  era Peppe Lanzetta, era Nanni Loy,  era per capirci, quello che a tutti è capitato di vedere, e io non volevo fare altro che capire se quelli sullo schermo e dietro lo schermo s’erano inventati qualcosa o se la loro funzione era stata più che altro quella di organizzare e snellire e rendere leggibili cose che già sapevamo, ma di cui ignoravamo capo e coda. La verità era che le storie fornivano mappe emotive anche per le cose che si vedono fuori dalla finestra: a Napoli, poi, c’era l’aggravante, perché quando un film prendeva una piega da cronaca nera la cosa risultava comunque più tollerabile di un telegiornale (perché la violenza “organizzata”, illuminata dalle luci giuste, con le giuste battute e i necessari intrecci fa meno paura, questo lo diamo per assunto o è il caso che linki qui il saggio “Violenza televisiva e subculture dei minori nel meridione”?)

Comunque mi laureai, andò tutto bene, trovai persino parcheggio nelle vicinanze dell’Aula Magna e una settimana dopo lavoravo, da precarissima, in un’emittente locale: la quadratura del cerchio, insomma. Il problema fu che cominciai ad incazzarmi ogni volta che sentivo parlare di Napoli e di fiction su Napoli e di elucubrazioni mentali su Napoli. E questo non perché fossi una fan della censura, ma perché ero e sono una convinta sostenitrice del fatto che dire trecentocinquantasette volte una cosa non aiuta, anzi, è un danno. Insomma: la letteratura, i film, quello che, è quando il tema è questa città assomigliano a quelle mamme che  mentre uscite, vi chiedono se avete messo la canottiera. Lo sapete, no, che alla terza volta, con tutto il bene di mamma, la mandate affanculo.

Adesso, premesso che fossi io un regista un film su Scampia lo farei prendendo prima una telecamera e poi  l’R5, voglio dire giusto una cosina: non vi aspettate che una fiction abbia una funzione sociale del tipo “guardo la tv e mi indigno e lotto contro la camorra, la criminalità organizzata, la microcriminalità, i parcheggiatori abusivi e, giacché ci sono, anche contro il colesterolo”. Se una ripresa video potesse cambiare davvero la nostra capacità di responsabilizzazione oggi, avendo chiarissimo il ricordo filmato dell’ultima Emergenza Rifiuti, staremmo tutti a dividere certosinamente plastica, carta e umido e i giornali non titolerebbero: “nuovi roghi di immondizia in periferia”. Non è un film, genere d’evasione, a darci un paio di paccari in faccia e dire “scetati”, anche perché se un film, un telefilm o quello che è, fosse capace di svegliarci seriamente – non parlo di quel momentino di pisquanica volontà di cambiare il mondo perché “sono stanco di vedere la mia città rappresentata tanto a chiavica” -, v’assicuro che non avremmo necessità di produrne altri:  in momenti di recessione, basterebbe dare un occhio, chessò, a “Pianese Nunzio, quattordici anni a maggio” di Antonio Capuano e/o a “Certi Bambini” dei fratelli Frazzi. O, nei casi in cui fossimo fiduciosi e volessimo tenere conto che Scampia non è la foresta amazzonica e non c’è bisogno di Rambo, ma di una presenza costante e continua di chiunque possa dare una mano concreta, “Caro Diaro” di Nanni Moretti. Sempre che qualcuno non pensi che sia fantascienza dire: “Scampia, pensavo peggio”.