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Cuba, si así es la vida, hay que vivirla

Quello lì è Che Guevara…e l’altro?

Gesù Cristo!

Sono su un bus che transita per Plaza de la Revolución, un bus rosso a due piani che per noi dovrebbe essere una sorta di standard del turista non automunito e con poco tempo, e per gli autoctoni una novità, giacché tutti – anche gli adulti, per capirci – salutano al nostro passaggio. La Habana, fuori dal centro, dopo una avenida e una calle a scansare con la testa i rami dei flamboyant, l’albero dai fiori rossi icona nazionale tra le tante. E poi la piazza: vuota sotto il sole, da un lato il Che e poco più avanti, trasfigurato come Nostro Signore, Camilo Cienfuegos che quasi nessuno dei miei compagni di viaggio riconosce (nonostante il suo ruolo e il fatto che, a mio modesto parere, sia anche il più carino dei vari artefici della rivoluzione cubana).

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Il malentendido cultural, il cappello da guajiro ora aureola e il pizzo da barbudos come iconografia cattolica è forse più giustificabile se vi dico che è qui che Papa Francesco celebrerà la messa il prossimo 20 settembre, con il Che, suo compatriota, alla destra e José Martí, altro padre della patria, alla sinistra? C’è già un palco, una croce, molti uomini a lavoro ma chiedere, qui come altrove, significherà sentirsi rispondere senza l’entusiasmo che immaginereste: non c’è un popolo che aspetta, o almeno, io non l’ho visto. Gli unici festoni erano quelli del Carnevale che andava a finire.

E sulla centralissima calle Obispo, ripavimentata facendosi largo tra i turisti un pezzo alla volta, senza una sosta che non fosse dovuta alla pioggia, avendo deciso di indagare meglio su questa cosa del “Papa a La Habana”, ho chiesto informazioni ad una signora del Comités de Defensa de la Revolución e la conversazione è stata più o meno questa: – I lavori sono per la venuta di Papa Francesco? – Anche. L’unico, tangibile segno di benvenuto al Pontefice stava in un manifesto appiccicato sul retro di un bici-taxi. Il nostro compagno di viaggio autoctono e preziosissimo racconterà, poi, il suo punto di vista: la vera visita, attesa dai più, era quella del segretario di Stato Usa John Kerry, il primo sull’isola dopo settant’anni con tanto di alzabandiera a stelle e strisce sullo sfondo del Malecon, un lungomare che somiglia terribilmente al nostro negli anni Ottanta.

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Abbiamo lasciato la città il giorno dopo per scendere verso sud.

E per quanto dissestata fosse la strada che stavamo facendo, per quanta necessità avessimo di arrivare a destinazione prima che calasse la sera giacché l’illuminazione puoi scordartela una volta sceso il sole, nonostante anche il fatto che le uniche informazioni attendibili per orientarsi fossero i cartelli con il nome della finca, il fondo coltivato che si estendeva fino a dove arrivava il nostro sguardo oppure – ed era la stragrande maggioranza dei casi – gli slogan e le immagini di propaganda del tipo: “Davanti al Che fatto con le pietre siamo già passati”, quello che ho visto era così dignitoso e colorato da meritarsi attenzione, cortesia, voglia di capire. Così Cuba è diventata, per me, una sorta di passino che filtra l’esistenza: separa quello che vuoi da quanto ti è indispensabile.

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L’acqua, ad esempio. Parti sapendo che non potrai bere quella del rubinetto e che ti conviene scegliere sempre bottiglie sigillate e bevande senza ghiaccio. Consigli da turista: seguirli davvero è un’altra cosa. In alcuni posti in cui ho dormito, al punto 3 dei servizi offerti c’era proprio questo bene primario, spiegando i motivi per cui si potrebbe anche bere direttamente alla canna, ma forse è meglio di no. In ogni caso, questa è una riflessione da fare quando, aprendo i rubinetti, l’acqua c’è: non sempre è così e la filosofia cubana è quella di dare per certo il suo ritorno, ma non sapere esattamente quando (dopo un po’ ci si fa l’abitudine, comunque. E poi, la cosa succede in Campania, figuriamoci se non può capitare qui). Se pensate che la situazione possa essere facilmente risolta andando in un supermarket o in un chioschetto vi sbagliate: per quanto la regola non sia chiara, non è detto che chi vende la Tukola (la cola alternativa prodotta in patria) o altri refrescos abbia anche della minerale, anzi. Lo stesso vale per i negozi dove ci sono file diverse in base a cosa acquisterai e le balle d’acqua, quando presenti, sono esposte su quegli scaffali centrali come merce importante, prima del banchetto dove un rotolo di carta igienica costa 40 centesimi di Cuc e il rum invecchiato di sette anni, ne costa poco meno di 4.

Un giorno, dopo aver visitato il memoriale dedicato al Che a Santa Clara, sono tornata alla macchina con Jorge che canticchiava la canzone, quella entrañable transparencia de tu querida presencia, per capirci, con una gioia che davvero aveva poco a che fare con la politica per come la conosciamo. Sapeva d’infanzia, ecco, e io, giovane italiana che si era infilata in una casa cooperativa dell’artigianato o in una fabbrica di manufatti d’argilla, che era entrata nelle case e ci aveva trovato iguane al guinzaglio, che aveva spiegato ad un cantante da paladar che “Brucia la terra”, la canzone de “Il Padrino III”, non ha molto a che fare con la mafia, anzi, è una canzone d’amore struggente e poteva cantarla con una certa tranquillità (ho dovuto, per suggellare la cosa, tradurla), io, ad aspettare una macchina rotta che non può partire perché manca il pezzo di ricambio dalla capitale, ad ammettere che alcune città sembrano reduci da un bombardamento o a ricevere lettere e abbracci da gente che non avrei più rivisto e di cui ignoravo l’esistenza, una sera in cui era così buio che la Via Lattea sembrava una macchia nel cielo, mi sono trovata a vergognarmi di non sapere – non tutto – quasi come la compagna di bus che il caso aveva posto dietro di me in Plaza de la Revolución.

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Ero una turista, a cantarmi Guantanamera sarebbe stato un delfino durante uno spettacolo, e qualcuno si sarebbe anche stupito del fatto che la conoscessi. Ero una straniera: visitando Cuba e le sue città, i fatti e le persone che le animavano mi sembravano così legate le une alle altre da desiderare anche io e anche inconsciamente una tale vicinanza ai miei compatrioti, per potermi sentire a casa, e casa poteva essere anche un vialone poco curato in cui però c’è la calma giusta per una partita a scacchi con tanto di pubblico. «Mi niña!» Chiamavano i campesinos sulla carrettera central o sull’autopista – l’autostrada mai completata dopo la dissoluzione dell’Urss e la fine degli aiuti sovietici – provando a vendermi formaggi e corone d’aglio come da noi capita per i fazzolettini: ho detto di no, ma ho sperato, giuro, che il cambiamento tanto auspicato avvenga nella maniera più gentile, gestibile e comprensibile anche per loro, soprattutto per loro.

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Questo racconto della mia estate 2015 a Cuba, tra La Habana, la Cienaga de Zapata, Trinidad, Cienfuegos, Santa Clara, La Hanabanilla, Sancti Spiritus e Cayo Largo è stato pubblicato su Il Mattino il 19 settembre 2015

Il cielo sopra (il muro di) Berlino

Chi torna da Berlino, parla di cantieri e di nuove costruzioni. Ne parla bene. Non ha lamentele da fare su blocchi del traffico o sulla mobilità: perché cantieri e costruzioni non ostacolano la vita, anzi, la vita stessa sembra tutta da fabbricare, tirare su, mettere a nuovo, anche il passato, basta far un giro a Nikolaivirtiel, il quartiere di origini medievali quasi completamente distrutto durante la seconda guerra mondiale e ricostruito negli anni Ottanta, per dirselo.IMG_3498

Edifici moderni a pannelli prefabbricati che raccontano: alla vista siamo uguali ai pochi palazzi scampati alle bombe perché una guerra la si può toglier via dai muri senza per questo negarla alla coscienza, e siccome la coscienza è la strada da seguire, forse il posto giusto per la memoria è lì, nei sampietrini d’ottone di certi marciapiedi che portano scritto il nome di chi viveva qui e il luogo in cui la sua vita è finita. Il perché è noto. Le chiamano stolpersteine, pietre d’inciampo, le ha pensate l’artista Gunter Demnig in memoria di cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti, di gruppi etnici e religiosi ritenuti indesiderabili dal regime. Per ricordare basta poco, un solo cenno: sulla Grosse Hamburger Strasse lo sanno, e dove sorgeva l’Alter Jüdischer Friedhof, il più antico cimitero ebraico distrutto dalla Gestapo nel 1943, ora c’è una sola lapide, quella di Moses Mendelssohn, il filosofo illuminista. Lo sa Libeskind con il suo Jüdisches Museum che, ha spiegato, «descrive e integra, per la prima volta nella Germania del dopoguerra, la storia degli ebrei del Paese, le ripercussioni dell’Olocausto e il senso di disorientamento spirituale connesso a tutto ciò».

Lo sa la East Side Gallery, il tratto del Muro lungo quasi un chilometro e mezzo, galleria d’arte all’aperto che ospita oltre cento dipinti murali originali e dice quello che un libro di storia non farà mai: che qui si è vissuto, mentre quelli che oggi sono i fatti erano ancora da venire, e i fatti e la vita possono correre assieme, certo, ma l’uno non può sapere dell’altro, se non in pochi, rari momenti fortunati. E quando ciò avviene, anche il “dente bucato” della città, la Gedächtniskirche, la chiesa della commemorazione del Kaiser Wilhelm rovinata delle bombe, diventa monumento che celebra la pace e la riconciliazione.1916023_1219902942164_6210690_n

È allora che Berlino sta alla vita come i trent’anni ad una donna: il momento in cui ti sembra di aver fatto molte cose e di poterne ancora fare, e sei sicura di te anche se il tuo futuro può apparirti incerto e il ricordo del passato spaventarti: non cerchi più ragioni in loro. Sei esattamente quella che sei, e va bene. Va bene se Tempelhof, il vecchio aeroporto, «la madre di tutti gli aeroporti» come lo definì l’architetto britannico Norman Foster, il luogo famoso in tutto il mondo perché qui atterravano i voli del ponte aereo del 1948, diventa un parco al contrario di quello che avviene altrove, dove il progresso passa per il cemento. Qui c’è il verde, l’aria, qui è più grande di Central Park a New York, e puoi correre sui pattini o affittare una bicicletta o far volare un aquilone, assieme alle altre 50mila persone che lo visitano ogni fine settimana.258467_4397746946278_1072353942_o

Va bene se di un complesso di otto cortili comunicanti del 1700, ne fai opera di restauro che diventa sinonimo di nuovo, nel Duemila: sono gli Hackesche Höfe e si trovano a pochi passi dalla stazione della metropolitana di Hackescher Markt, e ci trovi negozi, ma anche abitazioni private e botteghe artigiane, e locali, lavoro, intrattenimento, gastronomia, teatri.

Va bene la costruzione, il cantiere e l’appunto di memoria da un lato, le linee della metro e del tram e gli autobus a due piani, i mercati e i negozi di vintage, i ristoranti indiani tra l’est e l’ovest che distingui dagli spazi o dall’alto della Fernsehturm, la Torre della televisione alta, si dice, 365 metri, uno per ogni giorno dell’anno. Va bene tutto perché sei qui e lo sai: ce la fai, ce l’hai fatta, ce la farai.

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Questo racconto è stato pubblicato in “Agendo 2014 – TERRA”