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La cosa che dico a te oggi

Oggi avresti compiuto 65 anni e lungi dal sentirti un povero vecchio, per ribellione al mondo che ti ha sempre voluto adulto troppo presto, ne avresti dimostrato al solito almeno 50 di meno, con tutto ciò che questo significa.
Non sono solo cose belle, sai?
Forse ti saresti fatto la barba per l’occasione, è molto probabile, ma ci hai fatto caso? I rimproveri vari sono finiti, perché sì, sei brutto senza barba ma è peggio senza baffi, quindi meglio puntare a perdere solo l’accettabile.
Forse avresti preso un giorno di ferie per andare a pesca giù al fiume (la camicia militare, mia, gli stivali pieni di fango sul pavimento appena lavato, tuoi) o solo a far la spesa.
O forse no. Forse un pensiero t’avrebbe rovinato i festeggiamenti al solito, – un pensiero mai tuo, un pensiero che viene sempre da fuori come una corrente cattiva – e niente barba, niente pesca, niente spesa: oggi si manda affanculo il mondo, ché il mondo un po’ se lo merita.
E che con danni, se di quel mondo facevo parte anch’io.

L’ipotesi meno accettabile, comunque, sei tu che nel giorno dei tuoi 65 anni soffri in un letto – che sia d’ospedale o di casa, è uguale – perché vuoi dormire ma non riesci, perché vuoi parlare ma non ce la fai, perché vuoi sentire e non senti niente e perché vuoi respirare, ma la mascherina dell’ossigeno ti dà troppo fastidio comunque.
Le tue parole, attraverso di lei, poi, sono sempre le stesse, sono quelle che ti ho sentito pronunciare sul serio.
Erano le ultime e l’ho capito subito.
Le ricordo ancora.
È facile, è una sola.
È l’unica che riuscivi a dire.
È Basta.
E a pensarci, che bella dichiarazione prima di andarsene, no? Dire alla vita che ti lascia che sei tu che non ne vuoi più sapere. Basta. Hai fatto bene.

Certo, forse non era il messaggio più appropriato da lasciare alla me trentenne – la me trentenne come in un gioco di specchi se l’è sentito dire da chiunque -, ma ho imparato ad apprezzare anche quello, anche alla luce del suo contrario. Il suo contrario è Forza! ed è sempre stata parola mia più di altre, è sempre stato quello che io dicevo a te e anche a me stessa e agli altri.

Forza! Basta!

Ma la malattia è stata la prima possibilità che ti dava il mondo di vedere riconosciuto il tuo dolore, e la morte è stato il tuo più riuscito vaffanculo, quindi alla fine, sai che ti dico: va bene, va bene ogni cosa se è a tuo vantaggio. Voglio che lo sia, anche se significa non averti qui. E quindi basta.

E quindi oggi (ma già da un po’) quello che vedo se ti penso, quello che sento se ti penso, be’, mio caro: sei tu che ridi, tu che trovi un modo anche scemo per farlo, uno qualsiasi. Me ne vengono in mente almeno una decina, sai, e un paio comportano la presenza di un gatto, forse un annedoto su quella volta che stavi in collegio e per il tuo compleanno – quanti anni avevi allora, 7 o 8? – era venuto un tuo zio – non ti ricordi più il nome, lo so -, t’aveva portato a pranzo fuori e avevi rischiato di mangiarne uno, spacciato per coniglio.

C’era il sole quel giorno o il cielo, come oggi, era una lastra di cementite bagnata, come portavi i capelli, l’hai presa bene sul serio come hai voluto fare intendere, quando hai imparato a raccontare i fatti della tua vita come uno scherzo della stessa, è questo che mi hai passato? Faccio domande senza più aspettarmi risposta, come vedi.

Il bello dell’assenza, se c’è un bello nell’assenza, è poter scegliere cosa vuoi ricordare. Non che il resto si cancelli, no, per niente. È che il resto non hai bisogno di tenerlo a mente, il resto lo sai sempre.
Sappiamo sempre troppe cose, no? Almeno su alcune ci vorrebbe un grande, gigantesco, pantagruelico punto interrogativo o almeno una passata di spugna, un giro in lavatrice, uno scossone alla memoria, come succede sugli autobus. O anche no. Non lo sapevo, ma ho scoperto che è un esercizio, la memoria. Non è semplice come andare in palestra o a correre, ma ci si avvicina. Tutto questo per dire che se oggi devo scegliere un pensiero, uno qualsiasi, e voglio che sia bello, mi curo che sia bello – e cristosantissimo, è una delle cose più difficili mai fatte – lo si deve a te e a te solo.
Mi hai dato un dolore, forse più di uno, ma mi hai sempre lasciato la cura. Sei stato papà anche nel modo in cui la tua morte mi ha insegnato che avevo ancora tanto da imparare nella vita. E sei papà anche nel modo in cui manchi. Nessuno ti aveva insegnato cosa e come, e guarda un po’ che hai creato: me che davanti a questa giornata non so se ridere o piangere e magari, be’, magari facciamo che entrambi, che ce ne fotte.

Auguri, padre*

*(padre pio, avrei aggiunto subito dopo)(ti avrei chiamato sicuro così, se certe cose non fossero mai accadute e ci fossimo sentiti a telefono oggi, me che arrivo solo nel pomeriggio, tu che vuoi venire a prendermi a metà strada, a piedi ma almeno dai una mano con le borse).