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Proteggi questi tre ragazzi che noi abbiamo smesso

La prima volta che ho ascoltato i Thegiornalisti era la fine dell’estate, quella di tre anni fa, una replica, come tutte.

Ritorni dalle vacanze che lasciano strascichi di cose da sistemare, zaini e valigie e lavatrici e appuntamenti da riprendere come fosse la prima volta anche dal dentista che ti segue ormai da un anno, esaurendo in 3 giorni tutte le scorte di calma che hai fatto nelle due settimane di ferie, mare ogni volta che è possibile, andiamo la mattina e torniamo la sera. È semplice star calmi d’estate, fa troppo caldo per gli altri stati d’animo. E tra residui di sudate e niente di nuovo all’orizzonte, un amico mi passò un pezzo di Tommaso Paradiso & co.

«È la canzone definitiva», disse.
«Per cosa?» chiesi io che capisco sempre subito, ma faccio finta di no (è cortesia, è paura di sbagliarmi, è voglia di sbagliarmi).
L’amico replicò in fretta, prima che scegliessi tra le opzioni. «Per questo momento», disse. E aveva ragione.

Restare con la pelle e il cuore seccato sotto un sole che mo’ se ne va pure lui, ogni giorno sembra l’ultimo fino a data da destinarsi, insieme alle chiacchiere nei bar, le occhiate dentro ai bar e via dicendo, che mo’ non c’hai più neanche la scusa dell’aperitivo beneaugurante per il rientro. E alberi che mettono i fiori a ottobre, città che sembrano campagna, persino Torino. E domande serie, cose tipo: come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?, un quesito che adesso mi andrebbe di girare al suo stesso autore, ma va bene. Persino “Promiscuità” che più che parlare di un festino m’ha sempre ricordato di quella volta in cui, avevo 12 anni, scoprii il fratello maggiore della mia migliore amica di scuola a misurarsi protuberanze e ammennicoli con i suoi cugini, davanti ad un porno e scappai via urlando. Una volta ho vissuto l’esperienza mistica di camminare per una Napoli deserta, le due e mezzo di domenica pomeriggio, con “L’importanza del cielo” nelle cuffiette. Una volta ho sognato/sperato nell’esistenza di una versione di “Proteggi questo tuo ragazzo” al femminile. Certo è che me la sarei scelta come jingle se fossimo stati in un programma tv: alla mia comparsa sarebbe partito “Proteggimi perché io sono di quelli che se a calcio sbaglia il  primo pallone, butta via tutta la stagione e non si riprende più”.

L’intero “Fuoricampo” era da portarsi dietro come una giacca leggera, nel caso, anche se poi ci serviva solo in metropolitana nello spostamento d’aria dell’arrivo di un treno o in un supermercato con il condizionatore a palla. Autunno di primi raffreddori e primi cacamenti di cazzo, e noi come i Thegiornalisti, persi senza googlemaps, senza sapere cosa fare domani.

Noi alle canzoni dei Thegiornalisti gli volevamo bene: come capita per il personaggio di un romanzo, per una frase trovata in un libro o l’altro e che pare sia stata messa là per te. Ci pareva di essere capiti o qualcosa di molto simile. Di Tommaso eravamo andati a cercare tracce e parole fino a “Io non esisto” passando per “Luca lo stesso” di Carboni, per metterci in pari proprio come si fa di un amico che ogni volta che ti racconta un pezzo di passato ti fa un regalo che pagherai tu stesso con l’attenzione, il ricordo, la riconoscenza.

 Ascoltarli era un fatto di pochi intimi, ma non nel senso di numero: nel senso di approccio alla vita.

Due anni sono passati veloci tra date di concerti a cui non si riusciva ad andare mai se non all’ultimo, come fai per le birrette che forse vi raggiungo, poi vediamo. Ci andavamo, cantavamo, tornavamo. In auto, al ritorno, succedeva sempre la stessa cosa: mettevi su la radio, un paio di giri di frequenze fino al “Per un’ora d’amore con Su-ba-siio”, e poi tornavi a loro. Perché t’accorgevi che loro volevi sentire alle due di notte senza una meta, senza una strada, con gli occhi lucidi e la sigaretta, e chissà se quello stronzo/a ci ha perdonato. “Completamente (Sold out)” arrivò giusto in tempo per le crisi esistenziali ormai diversivi tra un periodo di superlavoro e l’altro. Al terzo ascolto di questa scrissi allo stesso amico di anni prima. Avevo l’influenza ed ero imbottita di tachipirina.

«Mi fa venire voglia di prendere una macchina che non ho e andare a farmi un giro lunghissimo. È normale? – chiesi – Ho la febbre alta». Lui disse di sì. Fece anche la faccina sorridente fino alle lacrime. E credo sia stato allora, con 39 e mezzo di temperatura, che me ne sono accorta, anche se non l’ho detto mica:

i Thegiornalisti erano per noi un’autorizzazione morale alla nostalgia. Ci pareva che ci dessero un diritto: quello di essere malinconici davanti alla fine non dell’estate, ma di una certa innocenza. Anche se avevamo già 30 anni, sì, perché una bici rossa Atala pedalata a piedi scalzi è un ricordo d’infanzia che abbiamo tutti e a quasi tutti fa male una cosa: il tizio o la tizia che ci stava sopra (di solito noi stessi). E stavolta, stavolta, non dovevamo ricorrere a vecchie canzoni già cantate da fratelli maggiori o amici più grandi, non dovevamo scomodare Lucio Dalla o Curreri o Carboni, nemmeno Baglioni. Stavolta avevamo la nostra di musicassetta.

Se è successo qualcosa, è successo mentre cambiavamo lato.

I Thegiornalisti hanno cominciato a diventare non più famosi, non più conosciuti, orecchiabili, mainstream, commerciali, ricalcanti qualcuno persino Grignani di certi Festivalbar con “Falco a metà” e “La mia storia tra le dita”, no: sono diventati… c’è un modo gentile di dire “cazzari”? Incoerenti? Incoerenti, ok. 

E Tommaso Paradiso l’unico giornalista che ha avuto bene di mia conoscenza. 

Ed ecco cosa accadrebbe se uno dei loro storici sostenitori potesse parlargli a tu per tu, in presa diretta:

–  Quand’è cominciato tutto questo, eh? Forse quando hai detto sì a Pamplona o era “Amici” di Maria De Filippi? La notizia che Tommaso Paradiso si occuperà della colonna sonora del prossimo cinepanettone,  puro pus underground, un cult movie! Quand’è che la pagina Tommaso Paradigma (ho sempre creduto che dietro ci fosse qualcuno che conosco) ha cominciato ad essere più vera dell’originale? È stato come per la V stagione di House of Cards: cosa vuoi inventarti quando c’hai già Donald Trump alla presidenza? La realtà non è che ha superato la fantasia: l’ha pigliata a mazzate! 

(qui la scena da cui la nostra mente ha tratto ispirazione).

Chiariamoci, io sono una che è nata negli anni Ottanta. Una che di mainstream ne ha fatto non scorta, ma proprio rivendita. Quando Manuel Agnelli ha detto che i nuovi gruppi musicali italiani gli ricordavano il peggior Venditti, ho pensato: sì Manuel, e ci piace. Come ci piacciono gli Afterhours di un tempo, come ci piacevi tu in versione scrittore di racconti ne “Il meraviglioso tubetto”, come ci piacevano i festival, le rassegne, come ci piace tutto quello che ci ricorda qualcos’altro. Anche tu ci ricordi qualcuno – gli avrei detto –  te stesso. Ma sarebbe suonato più cattivo di quanto in realtà sia questa cosa. E qui cattivi non solo non siamo, non ci teniamo manco a sembrarlo, no. Siamo sensibili. Parliamo poco. Ricordiamo tutto. E se i Thegiornalisti stanno perdendo uno zoccolo duro di fan – e non lavorano per lo zoccolo, è evidente, non sono Jep Gambardella – è proprio per questo: non li riconosciamo più.

Comprendiamo le esigenze di mercato, quella di godersela finché dura, quella di puntare sui duemila che i trentenni stanno con le scolle in fronte, va bene, va bene tutto. Ma “Riccione”.

Al Tommaso Paradiso che sapevamo noi cercare un’aquila reale sul mare di Riccione con addosso un giubbino rosso fuoco, gli avrebbe messo n’ansia atroce, altroché; ai Thegiornalisti che ci piacevano non sarebbe stato possibile paragonare i Trettrè di Beach on the Beach, a questi sì, ho scritto un giorno. L’amico, quello che per primo me li ha passati non l’ho sentito in merito, non c’è stato bisogno: ha messo like. E l’ironia di questa cosa è che l’hanno cantata loro stessi ma due o tre canzoni fa: maledetto tempo, maledetto mostro.