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Perché non hai bisogno di San Valentino

Ha detto che non sa se passa da te, stasera. Roba di lavoro o impegni coi suoi, l’ha detto, non hai capito. Hai registrato il non so, hai una mente allenata a farlo. La parola forse ti fa fermare nel mezzo di qualunque cosa tu stia facendo, quasi avessi sentito anche una vocetta sopra la tua spalla. Dice “ecco, ci siamo”.
Al non so annuisci, più e più volte, “dai, non far finta di non sapere che sarebbe andata così”. Vorresti ascoltare la parola no, perché la parola no è uno sparo alto nell’aria, che fa volare via i pensieri come passeri da un albero. La parola no è tua amica, di quelle che capaci di farti l’occhiolino durante un’interrogazione, prendersi 2 e tornare a posto come se non fosse accaduto niente. Solo una domanda per cui non eri preparata. Solo un tentativo. Solo un no. Ma la parola no non si fa sentire spesso. Altrimenti sarebbe troppo semplice, ti sa.

Sei andata a scuola in un paesino in cui il giorno di San Valentino coincideva con quello delle celebrazioni per il santo patrono, Sant’Antonino. Usanze le cui ragioni e scienze non avevano alcun senso oltre i 10 km. Le ragazze che venivano da fuori la usavano come scusa per fingere coi genitori di andare a scuola come al solito e invece passare la giornata con il fidanzato. Il fidanzato, la pomposità del termine, la voce delle tue compagne di classe nell’indicartelo da lontano -presentazioni mai, non in un liceo composto dal 90% di piccole donne simili le une alle altre -, un ragazzetto che ti sembrava grande e scafato come oggi ti sembrerebbe tuo nonno, l’espressione da Marlon Brando in Fronte del Porto ignorando l’esistenza di entrambi. Tu il fidanzato non ce l’hai. Sei innamorata, certo, ma come ti innamori tu, sedendosi accanto ad un tizio sul bus, uno che va al professionale e come unica credenziale esibisce più timidezza di te. In ogni caso, tua madre ha frequentato il tuo stesso liceo, sa delle usanze, sa del Santo patrono e la prima volta che tenti di fregarla ti dice che ti ritirerà da scuola, meglio a casa che in giro con chissà chi. Oggi tua madre non ricorda di averti mai detto una cosa del genere. L’ha fatto. Non so, dice.

Entri in una chiesa per lo stesso solito motivo: è aperta. Una chiesa aperta è sempre un invito, non da Gesù Cristo o Dio o chi di per esso, ma dal fresco, il fresco di una chiesa semibuia con le statue dei santi e per ogni santo una specializzazione, casi disperati (Santa Rita), giornalisti (San Francesco di Sales). In questa, giacché sei in Irlanda, non sai chi aspettarti e un po’ ti stupisci e ti pare un segno (o un simbolo?) il fatto che nella Whitefriar St Carmelite Church all’angolo tra Aungier Street e York Street, tu ci abbia trovato San Valentino, patrono degli innamorati, con tanto di sacra reliquia. Hai un momento di trance mistica in cui:

  • preghi
  • credi
  • giuri

Per i prossimi 5 anni ti dirai che non vale né la preghiera né ciò che hai creduto, non il giuramento. Perché eri all’estero e questo San Valentino, ora che sei tornata a casa, è fuori giurisdizione. La vostra comunicazione è disturbata come un’interurbana: o non gli arrivano le tue domande o sei tu che non senti le sue risposte. Ha detto forse o mi sbaglio?

Cosa vuoi per San Valentino. La colazione del bar. A casa. Chiunque sia stato ad aver avuto per primo l’idea della colazione a domicilio come regalo – in una scatola di un rosa che fa male agli occhi, in un cuore blu di vellutino infeltrito che manda scariche elettriche – è un genio. La ricorrenza è incidentale. Una scusa. Un buon motivo. Non hai bisogno di San Valentino, no. Hai bisogno di un caffè anzi due, se c’è un cornetto alla marmellata ben venga.

(una volta conoscevi un tizio che aveva un preciso rituale: dopo la prima notte in compagnia di una ragazza nuova le mandava la colazione accompagnata da un bigliettino: questa è la prima mattina insieme. La cosa funzionò finché, come in un riflesso condizionato, inviò la colazione per due volte, alla stessa ragazza. Lei era una persona attenta).