Strada ‘nfosa

“…E anche il Leo, seduto dentro quella gabbia come un animale pericoloso, anche lui ha perduto quell’aria malata che hanno le persone profondamente infelici, l’ho visto appoggiarsi alla console stile impero di sua nonna, con quella sua vecchia aria annoiata e furba che aveva solo il Leo e che era il suo fascino, e ha detto: Tonino, rimetti Strada anfosa.

E così io gli ho rimesso il disco, se lo meritava il Leo di ballare con Maddalena altrimenti detta la Grande Tragica perché alla recita scolastica di fine anno interpretando Antigone si era messa a singhiozzare sul serio e non si fermava più; e quello era proprio il disco fatto apposta per loro, da ballarsi appassionatamente nel salotto stile impero della nonna del Leo. E così è cominciato il processo, con il Leo e Federico che ballavano a turno con la Grande Tragica guardandola perdutamente negli occhi, entrambi facendo finta che non erano affatto rivali, che di quella ragazza dai capelli rossi non gliene importava molto, lo facevano così per ballare, e invece spasimavano per lei, io compreso, naturalmente, che mettevo il disco come se niente fosse (…)

Federico ha detto qualcosa in tono interrogativo, mi è parsa una voce lontana e metallica come se la ascoltassi in un telefono, il tempo ha barcollato ed è precipitato verticalmente: e attorniato da bollicine, galleggiando in una pozza di anni, è affiorato il viso di Maddalena. Forse non si dovrebbe andare a trovare una ragazza della quale si è stati innamorati, il giorno in cui stanno per tagliarle i seni”

Il primo libro mi arrivò d’estate, tredici anni. Non sono i più adatti a legger certe cose, o forse sì. Sulla copertina c’erano disegnate due sdraio, la prima pagina diceva:  “I barocchi amavano gli equivoci”. Poi si partiva con una disamina di Calderón de la Barca e altri come lui, per cui l’equivoco era metafora del mondo: “Suppongo li animasse la fiducia che il giorno in cui ci desteremo dal sogno di essere vivi, il nostro equivoco terreno sarà finalmente chiarito”.  Non credo che a tredici anni si possa capir bene questo genere di riflessioni: per prenderle per buone sul serio bisognerebbe aver fatto un giro di vita più lungo, altrimenti si finisce per pensarle dato di fatto, e basta. Una declinazione di possibilità al tempo futuro. Il pensiero che uno sbaglio, un errore, rientrino comunque nel disegno, anzi, che il disegno possa esserne in qualche modo arricchito. Roba per nulla confortante: dire con certezza se e quando e dove e come son successe certe cose e quali conseguenze hanno apportato non è possibile, guai ad averne l’illusione o a pensare definitivo l’ultimo rivolgimento di tempo. Avremo bisogno sempre di una prospettiva diversa da quella di una matita sul foglio. Stabilire una qualsiasi verità, finalmente. Sulla pagina è più facile far muovere personaggi altri da noi, per loro e solo per loro possiamo pensare azioni compiute se non pensieri finiti e, soprattutto, il loro esito: che le nostre copie carbone si muovano in Toscana o in una stazione della Riviera, o a Lisbona o a Bombay piuttosto che a Madras, faranno qualcosa e quel qualcosa avrà un senso, inizio, fine, giocata, partita, goal o meno, ma minuto novantesimo della storia.

Mi vengono questi paragoni perché è domenica e c’è il Napoli e Dossena sta clamorosamente sbagliando qualcosa in campo. In un universo altro e scritto, diresti: “eh beh” e io ne sorriderei. Invece sono qui, dovrei avere in forno una torta rustica per la serata ma ho solo una gonna lunghissima e ampia a fiori che indosserò tra qualche ora per ricordarmi che è primavera sempre che non venga a piovere. Tra trasmissioni radio, corse in motorino, metto su il caffé e non riesco a formulare pensieri migliori di quelli di Antonio Tabucchi per i suoi autori barocchi. Il primo: “Auguro loro di non aver trovato un Equivoco senza appello”. Il secondo: “Questo, comunque, si vedrà”.

In campo, l’unico uomo in cui credo ha appena segnato. I compagni lo baciano in bocca, o quasi.