Il primo uomo con cui ho avuto a che fare

Il primo uomo con cui ho avuto a che fare è uno che qualche anno prima era stato fermato mentre faceva l’autostop a Firenze. L’avevano portato in caserma e gli avevano fatto tagliare barba e baffi perché così somigliava troppo ad un reazionario. Storie degli anni Settanta che mi facevano assai ridere: me lo vedevo, ritto davanti allo specchio a rasarsi e quelli sbalorditi di come una faccia può cambiare in dieci minuti.

Il primo uomo con cui ho avuto a che fare mi diceva spesso di non rompere le scatole mentre dipingeva. Ho chiesto: quali scatole? Io non ho rotto niente niente. E lui ha riso e mi ha fatto disegnare Poochie ballerina sulla sua tela, al posto della natura morta con teschi in cui si stava producendo. Si produceva in molti quadri metafisici, quest’uomo, e canticchiava mentre la sua donna stava male, i suoi lavori portavano la firma di un altro e una bambina imparava che la disoccupazione e l’inchiostro a china e le canzoni di Pierangelo Bertoli erano una specie di colpa universale, legate l’una all’altra come chiavi ad un anello chiamato, per brevità, “giovinezza”. Le chiavi non aprivano niente.

Ma quest’uomo, sapete, mi ha regalato una spilla con su una pin up innamorata. Sopra stava scritto: Susie’s got a boy. Io ho pianto perché volevo un altro regalo, volevo la pantera rosa, volevo barbie luce di stelle, volevo il dolceforno, ma lui ha spiegato: adesso sei piccola e non ti piace, ma se aspetti poi capisci. Quest’uomo, la prima volta che ha cucinato, non capiva questo fatto degli odori, così ha gettato nella passata di pomodoro tutto quello che aveva trovato nel cassetto basso del frigorifero: aglio e cipolla, prezzemolo, sedano, basilico, carote, tutto. Non volevo assolutamente toccare quella broda arancione ma lui si ostinava a dire che sì, quello era il mio pranzo. Ho preso a minacciarlo, a dirgli che un giorno sarebbe stato vecchio e avrei cucinato io per lui, le cose peggiori, topi e scarafaggi, e lui avrebbe dovuto mangiare perché comandavo io.

Lui ha detto: va bene; io ho pulito tutto il mio piatto.

Il giorno seguente ho imparato a cucinare.

Quest’uomo una volta ha scoperto, e aveva già quarant’anni, di avere un secondo nome: Felice. Abbiamo riso assai per questo fatto.

E al primo fidanzato con cui andavo a dividere una casa, diversi anni dopo, quest’uomo ha fatto la scuola su metodi contraccettivi. Il primo fidanzato stava tutto vergognoso e camminava affrettando il passo. Io ridevo trascinandomi la valigia dietro loro due.

Quest’uomo mi ha ripreso sempre quando parlavo in dialetto o quando strappavo una metà dal quaderno per scriverci una storia, ha comprato per me figurine di Holly Hobbie e in tempi decisamente più recenti Marlboro Gold.

Potremmo dire che ha un talento per la comicità, e infatti gli è sempre piaciuto: disporre mozzarella e prosciutto nei piatti in modo da disegnare una faccia sorridente; raccontare storie sconclusionate; dimenticare i nomi della gente con cui parla (mentre ci parla) o attribuirne altri di sua fantasia; fare scherzi un po’ crudeli tipo lasciarmi sola in un posto sconosciuto e uscire dal suo nascondiglio solo quando prendevo a strillare come un merlo indiano. Usciva ridendo, preoccupato nemmeno un poco, e io mi chiedevo forte che cazzo ci stava di divertente nell’abbandonare qualcuno, anche se per poco, anche se per gioco.

La risposta a questa domanda non è ancora venuta anche se ho delle idee in merito, del tipo: forse voleva dirmi che gli abbandoni sono una cosa che capita, come tutte le altre. Oppure che il problema è sempre di chi rimane, ma chi rimane ha il grosso vantaggio di potersela raccontare come vuole.

O che se ne può ridere sempre e comunque.

Non lo so, ma diciamo che mi fido.

Dopotutto è mio padre.

Questa storia è diventata un racconto per Abbiamo Le Prove.

Potete leggerla per intero  anche su Minima&Moralia.