Niente di cattivo nella musica

Le canzoni della mia vita sono state scritte che io non ero ancora in calendario. Mia mamma era molto preoccupata: sarei nata senza conoscerle. Per lavarmi di dosso il peccato originale del ritardo decise di giocare in anticipo su un tempo che ancora non avevo: il suo. S’alzava allora alle quattro del mattino, aveva caricato tre sveglie per esser sicura ma l’impegno era sempre più forte del sonno: quando l’orologio si metteva a trillare lei era già uscita dal bagno. Poi alzava da terra il materasso, metteva su il caffé, chiudeva la porta con tre mandate ed era in strada. La città era vuota, sembrava scampata ad un disastro nucleare. Non che durante la giornata la cosa fosse diversa: durante la giornata c’erano pure gli zombie.

Lei e mio papà avevano preso appuntamento per tutti i lunedì alle sei. Se non vieni telefono a tua moglie, il tuo numero è sempre 081….? gli aveva detto per convincerlo minacciandolo con la matita molto appuntita che portava sempre nei capelli. Lui aveva guardato la grafite nerissima con noncuranza, fatto un debole cenno con la testa: Ma a cosa ti serve? Questa cosa non ha senso. Mia mamma non aveva mai avuto successo con le minacce, soprattutto quelle che presupponevano una certa organizzazione per esser messe in pratica. Immaginate: alzati una mattina, bevi tre caffé per esser sveglia, esci a comprare la ricarica per il cellulare, gratta la striscia argentata con la punta dell’unghia dell’indice sinistro, chiama il numero verde, schiaccia sul display la serie di sedici numeri senza sbagliare, riaggancia, prendi un altro caffé e infine pesca dalla borsa il bloc notes, ricopia il numero, telefona . A telefono dì brevi frasi circostanziate, parla dei fatti, racconta delle prove che hai, non parlare di sentimenti: telefonare alla moglie dell’uomo che ami è come chiamare in Questura.  Troppo faticoso, e comunque sui verbali certe cose non si possono scrivere.

A Mamma era parso più giusto dedicarsi a me. Mi proibiva canzoni straniere affermando che la melodia non era importante quanto le parole. Mi teneva lontano dal dialetto napoletano, dalle sigle dei cartoni animati giapponesi, dal disco bambina di Heather Parisi. Ci teneva che io capissi bene tutto. La mattina alle cinque si metteva alla fermata dell’autobus e aspettava la prima corsa verso la periferia. La città decantava ad ogni fermata e i palazzi, come panni messi in candeggina, perdevano colore mano a mano che s’avvicinava alla meta. Davanti alla stazione stava papà ad aspettarci, in piedi davanti alla macchina nelle giornate di bel tempo o seduto nella fiat regata di centesima mano quando pioveva, ma sempre girato di cazzo e con il tizzone di Camel light tra le dita.

– Facciamo presto le diceva
– Oggi dobbiamo finire De Gregori, hai portato Prendere e Lasciare?
– Ho portato pure Amore nel pomeriggio, se è per questo.
– No, Amore nel pomeriggio tientelo. De Gregori preferisco ricordarmelo vivo.

Salivano in macchina. Sul sedile posteriore c’erano musicassette di Edoardo Bennato, di Lucio Battisti, di Francesco De Gregori, Guccini, Bertoli, De André. C’era un mangianastri arancione, di quelli con la maniglia, per le hit più vecchie. Papà attaccava l’autoradio, guidava e fumava. Ogni tanto parlava intorno alla sigaretta, brevi appunti sul tempo, sul caldo o sul freddo. Faceva avanti e indietro dalla pompa di benzina alla piazzola di sosta di una rampa autostradale che non portava da nessuna parte, gli sembrava un gesto simbolico. La mamma restava seduta immobile, la mano sulla pancia e gli occhi incollati da qualche parte fuori dal finestrino. Tu che non credi ai miracoli ma li sai fare, diceva  De Gregori. Sandra, questa cosa è da pazzi, rispondeva mio papà.

Che poi a me è venuto il dubbio che il primo destinatario di tanta educazione musicale non fossi io quanto lui: era a mio papà che mamma voleva far sentire certe cose. E non ho mai capito se sperava in un repentino mutamento delle situazioni o se voleva semplicemente fargli del male. Con delle canzoni, poi.

(prima puntata)

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