La vita come tu te la ricordi un giorno se ne andò con te

Non so mai, anzi, non voglio sapere che anno era e che anno è. Non so mai, anzi, non voglio sapere cosa è successo dopo o immediatamente prima. Perdo – volontariamente? – pezzi e date. Fatico a collocarli sulla linea temporale giusta. Ho ricordi spaiati come calzini di ciò che accadeva in quel periodo. Sembra sempre non sia successo a me. E se mi fisso troppo su questi dettagli senza il supporto di una prova, sento lo stomaco rivoltarsi e poi farsi piccolo e pesante. Un pugno.

Per sapere che sono passati 3 anni senza esserne manco sicura per davvero devo confrontare la data di oggi con quella che sta su una foto. È stata scattata il giorno della mia laurea e nell’originale ci sono anch’io: la coroncina d’alloro, i fiori, il tailleur grigio, la porta dell’ascensore sullo sfondo, un corridoio universitario in cui fu possibile improvvisare brindisi e pasticcini e la mia persona, l’espressione che non so più se definire sicura o ingenua, le guance ancora piene, un certo ricalco di tratti somatici che oggi ho definitivamente perduto. La prima dottoressa della famiglia. In un universo parallelo messo di taglio tra quello che è stato e quello che poteva essere, questa foto campeggerebbe in salotto; invece mi sono tranciata via di netto una mattina che nella mia memoria è alternativamente ieri e 4 secoli fa. Ho cancellato tutto a photoshop e l’ho inviata via e-mail ad un’agenzia funebre di cui mi stupì molto l’attitudine tecnologica e grafica. Adesso ci sono nuvole e cielo azzurro di primavera alle sue spalle. Sotto c’è una data diversa dal giorno in cui è stata scattata.

Data di acquisizione: novembre 2009.
Ultimo accesso: marzo 2014.
Senza questa roba non avrei certezze.

Il primo uomo con cui hai a che fare ha il sorriso impanato nella barba, aperto e fiducioso come se tutti, qui fuori, si fosse amici, persone gentili, educate, civili, sinceramente interessate gli uni agli altri, progressiste e con una certa preparazione artistico-musicale. Pensa di essere su Facebook molto prima che Facebook sia in calendario. Per tutto il tempo che ci vuole perché ti fidi di lui, ti guarda di sottecchi facendo smorfie buffe. Il problema – si sincera che tu lo sappia – non sei mai tu. Ma lo diventerai. Ne siete consapevoli entrambi.

Quando ho scritto questo? Prima. Il file di word conferma la mia tendenza a far da Cassandra per piccole sciagure personali, motivo per cui per tipo un anno non sono riuscita a metter le dita su una tastiera, la penna su un foglio, senza aver paura di ciò che avrei potuto scrivere o anche solo sentire.

Quest’uomo ti sprimaccia un bicchiere contro la guancia un giorno che hai 12 anni e stai piangendo per qualcosa che hai dimenticato. Guarda il tuo pianto inscatolato e capisci che il dolore è soprattutto acqua. Riprendi a mangiare il risotto coi funghi della Knorr che hai orgogliosamente spadellato in luogo di abominevoli nefandezze alimentari possibili. Lascia che compri per te figurine di Holly Hobbie. Lascia che ti voglia bene come il suo cuore gli permette e il suo portafogli sostiene.

Dell’artefice di tale splendida opera di fantasia che è la mia percezione emotiva, mio padre, ho un video girato in piazza Duomo a Milano prima di banani, palme e polemiche e due ore dopo aver saputo di avere: a) un tumore; b) inoperabile; c) con metastasi pressoché ovunque; d)da restarci paralizzati dal collo in giù nel migliore dei casi e cioè dopo chemio e radio. Non ho mai sperato per l’opzione d) anche se l’ho tenuta nel conto. Per quanto riguarda lui, dopo averci pianto 10 minuti davanti ad una donna che oltre ad una laurea in medicina doveva averne anche un’altra in stronzologia applicata, ha detto: vabbé, andiamocene a fare un giro al Duomo.

Il video testimonia che l’abbiamo fatto per davvero.
Il video testimonia che lui sorrideva, quasi divertito dalla faccia che avevo messo su, una specie di kleenex gigante chiuso in un cappotto più grande di due taglie.

Al primo fidanzato con cui vai a vivere a 18 anni quest’uomo chiede cosa ne pensa dei preservativi, se sa come usarli, se ha abbastanza soldi per comprarli. Il primo fidanzato sta tutto vergognoso e cammina affrettando il passo con le gambe chiuse come se gli scappasse la pipì. Tu ridi trascinandoti la valigia dietro loro due. Per un tempo che ti pare infinito e che ricorderai come uno dei migliori anche se all’epoca non ti sembrava mica, lui aspetta il tuo ritorno con la macchinetta del caffè pronta sul fornello, alle dieci di mattina come di sera tardi. Se torni in un giorno che c’è bel tempo ti verrà incontro per aiutarti con la borsa, anche se è piccola e non pesa niente. E ogni volta che te ne andrai ti accompagnerà fino al treno, sempre molto orgoglioso del fatto che sei diventata una capace di andarsene. Lascia il primo fidanzato, trovane uno nuovo. Lascia che lo conosca. Lascia che lo scandalizzi per te. Resta con quello che dopo due ore lo trova ancora molto simpatico al punto di avere foto in cui fingono di strangolarsi a vicenda. 

Mio papà, per certi versi, era un ventenne scriteriato anche a sessant’anni. E in tutto questo c’era una specialità: se c’era una tramvata da prendere, anche nel giro di chilometri, potevate pure stare certi che lui l’avrebbe presa a pieno correndogli incontro come si trattasse del treno che aspettava da anni. O magari voleva solo emulare l’eroe giovane e bello de La Locomotiva di Guccini, non so, è assai probabile. Per dire: era estremamente fiero di non essersi mai fatto la tessera del partito che pure votava perché non voleva confondersi con quelli che se l’erano fatta per avere un posto, sia mai che qualcuno pensasse male (morale della favola, mio padre ha preso a lavorare a regola solo quando io avevo 9 anni: buona parte dei compagni aveva già la poltrona in pelle umana; lui risultava una specie di anarchico di provincia con cui era meglio non discutere, anche se per farlo incazzare ce ne voleva).

Termina gli studi dedicandogli la tesi. Stampala, falla rilegare, lasciala sul tavolo del soggiorno. Esci mentre si accorge di non essere nei ringraziamenti. Esci mentre capisce che il suo nome sta all’inizio. Ti diranno che ha pianto, ma tu attieniti al sorriso. Scatta foto di quel momento: ti serviranno.

Ho almeno 3 album di foto di cortei e scioperi anni Settanta/Ottanta. Tra loro ricordiamo quella che caricò su Facebook taggando Karl Marx di spalle. O il ritaglio di giornale in cui figura non solo come autore della trasposizione di “Rock-Opera”, spettacolo che ha visto duemila e cinquecento spettatori nella sola Eboli, ma anche vestito da barbone. Nei miei primi anni di vita ho partecipato a qualsiasi tipo di manifestazione sulla ricostruzione post terremoto dell’Irpinia e la tutela del centro storico mangiato dagli appalti e dalle tangenti (se ne è andato ancora incazzato a morte per i lastroni utilizzati per la pavimentazione, mio padre) o per l’uso scriteriato di un castello d’epoca normanna, ricordato nei documenti come ‘Domus domini imperatoris in Ebulo‘, considerato uno fra i più importanti del medioevo, finito come carcere.

Lascia che ti mandi affanculo, tra le carte francesi, il resto di un cornetto ora stantio, le cicche delle sigarette che hai fumato mentre lui dormiva, il gatto che scappa a nascondersi sotto il letto. Lascia che ti guardi chiedendo pietà. Il primo uomo con cui hai a che fare sta male, urla, piange, non risponde, dalla sedia rotola a terra in spasmi convulsori e tu non puoi fare altro che tenergli la testa mentre si contorce, sperando alternativamente che non dia una craniata o che la dia, una sola e buona, capace di portarlo in un luogo in cui il dolore non esiste. 

Lo stesso identico approccio sarebbe stato utilizzato, poi, per vicende molto più private: davanti alla vita che forse finiva e forse no, fece una lista uso rendicontazione di bilancio, un foglio su cui stavano scritti i nomi di tutte le donne con cui aveva avuto rapporti. Di tutte queste signorine – di una non ricordava il nome e dunque scrisse semplicemente “olandese sul treno” – nessuno poteva dirsi geloso o intimorito: l’unica che avrebbe potuto prenderla male commentò la cosa dicendogli che almeno al padreterno lui avrebbe avuto qualcosa da raccontare.

Il giorno in cui muore è quello in cui ti sembra giusto non trattenerlo. Il giorno in cui si rispetta la sua volontà d’essere cremato è marzo ma sembra giugno e c’è un sole che spacca le pietre e una collina in piena fioritura e una macchinetta del caffè come unico sostegno e un parcheggio in cui nasconderti quando sei troppo stanca per far finta di mantenere la calma o il controllo. L’hai visto smagrire, indossare il pantalone del pigiama in pile sotto i jeans per farsi contemporaneamente caldo e muscoli. L’hai visto non riconoscersi nella porta a specchio di Linate la notte di Capodanno, dire «marò, che brutta faccia» prima di capire che era la sua. L’hai visto chiedere ad una cameriera di Piazza Bellini un Negroni e a te di chiamare un po’ di amici, così, per festeggiare. Vai a capire cosa. Forse solo che stava ancora in piedi. Gli amici sono venuti, ma avevano tutti l’aria del “potrebbe succedere anche a me?” e lui se ne è accorto, allora ti ha detto: «facciamoci un giro». Diceva che l’aria di Napoli gli faceva bene, tipo cura omeopatica. E da una stanza d’ospedale pretendeva la telecronaca via sms di ogni partita. L’ultima di cui ti ha chiesto è stata con la Roma. Non è riuscito a sapere come sarebbe andata a finire. Se non fosse per il web, per i social, per i telegiornali, non lo sapresti neppure tu. 

Questo l’ho scritto dopo, sì, anche se non mi ricordo quando né voglio controllare.

*(il titolo di questo post viene da una canzone di Tiziano Ferro, titolo “Per dirti ciao“. E dunque, ciao papà, non è che uno ti saluta oggi e basta, figurati, ma ci sono giorni in cui la mia memoria è un puzzle di un quadro di Pollock e sarebbe bello poter chiedere a te di aiutarmi a finirlo, anche perché saresti l’unico a trovarlo molto divertente)