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Kafka, la bambola e il fatto che se la bambina fossi stata io, gli sarebbe venuta una crisi

Una settimana fa, anzi, più di una settimana fa (ho cattivi rapporti con il tempo, sia noto) ho rivisto un mio professore, amatissimo. Sono molti i motivi per cui sono molto felice d’essere stata sua allieva, uno dei tanti è che ogni volta che lo incontro mi ricorda esattamente il perché.
Ad esempio, una settimana fa anzi più di una settimana, mentre parlava di griglie e tabelle e piani da far combaciare ha tirato fuori e uniformato al discorso, un racconto di Paul Auster tratto dalle “Follie di Brooklyn”, la storia di Kafka e la Bambola.

Ovvero:

Kafka malato e certo che gli resti poco da vivere nella Berlino di carestie e violenze, tutti i pomeriggi va a fare una passeggiata nel parco con la sua fidanzata. Un giorno incontra una bambina, che piange come un vitello. Kafka le chiede cosa c’è che non va e la bambina risponde che ha perso la sua bambola. Allora lo sapete come fanno i grandi coi più piccoli, s’inventano una storia per spiegare le cose che spiegazioni non ne hanno. C’è da dire che Kafka aveva dalla sua la scrittura che, diciamolo chiaramente, non è altro che la capacità di fare di qualsiasi stronzata, una storia plausibile. Quindi dice alla bambina che la bambola è andata a farsi un giro, e lui lo sa perché la bambola gli ha scritto una lettera che, nel caso, può portare come prova. Quindi il nostro torna a casa, e pur non volendo mentire alla criatura, edulcora leggermente la realtà con la scusa che le leggi della narrativa sono sicuramente più giuste di quelle della vita. Quindi: la bambola non è andata perduta per un fortuito crudele caso, la bambola ha avuto bisogno di muoversi, di conoscere il mondo e le persone, ma questo non mette in discussione l’affetto e la gratitudine, anzi, la bambola scriverà alla bambina ogni giorno, raccontandole tutto quello che sta facendo.

La bambina prende per buona questa versione.

Kafka pure.

Nel senso che davvero si piazza lì e per tre settimane, 21 giorni 21, tra malattie, affanni, fidanzata e certezza che gli resta poco da vivere, scrive lettere pensandosi come un oggettino dalle guance rosate, poi le recapita ad una bambina del tutto sconosciuta, un esserino sconsolato incontrato per puro caso, di quelli che ci dovessero capitare su un tram domani mattina, penseremmo “ma non gli si può comprare un’altra pupatella, ‘a sta criatura?”.

Nelle lettere la bambola va a scuola, conosce il mondo e le persone: in parole povere cresce. E continua a volere bene alla bambina, ma ogni tanto butta lì la zeppata sull’impossibilità del ritorno. E a quel punto, con estrema cura, per preparare l’infante alla definitiva sparizione, Kafka ci mette di mezzo l’amore. Nel senso che la bambola s’è innamorata: c’è prima una festa di fidanzamento, poi le nozze in campagna e poi un marito a cui pensare. L’addio sembra più giusto così, almeno alla bambina, che salutata come una “vecchia e affezionata amica” s’accorge di non sentire più la mancanza della bambola e di poter gioire per la sua felicità.
Kafka le ha reso comprensibile l’abbandono, insomma, cosa che sfido io. Di più: vi ha trovato una giustificazione.

Però*.

* però mentre il mio professore raccontava questa storia e io gli volevo molto bene, e anche nei giorni successivi, quando mi capitava di ripensarci, io non ho potuto fare a meno di dirmi che, fossi stata io la bambina,


1) col cazzo che mi mettevo lì e per 21 giorni leggevo le lettere della bambola. Al primo accenno su un mancato ritorno dicevo, Uè Franz, piglia carta e penna e scrivi: “Cara bambola, sono molto molto felice per te, t’appost, c”a verimm”;


2) probabilmente subito dopo sarei fuggita in lacrime scossa non solo dalla perdita ma anche dal fatto che mentre io mi sbattevo, la bambola stava benissimo a fare i fatti suoi per poi scrivermi per interposta persona;


3) e a Kafka sarebbe venuta una crisi;


4) E io, in quanto bambina osservatrice e comprensiva nonostante il sacrosanto diritto di non vedere e non comprendere, gli avrei detto, povero povero Franz, non ti preoccupare, ci credo alla storia della bambola, su, dico seriamente, va tutto bene, anzi, scusa scusa scusa, adesso dai, torna a casa e mettiti a letto;


5) Fino al giorno in cui la bambola non sarebbe ricomparsa, dall’anfratto in cui l’avevo smarrita, e avrei capito, probabilmente troppo presto, che no, io e il mondo e le persone dobbiamo tenerci a debita distanza. Quindi, vieni bambola, mio caro oggetto inanimato che se perdo o si rompe posso dire, bah, cose che capitano senza dovermi prendere per culo da sola, andiamo.