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Cosa avrebbe detto Ruskin sulla fiction a Scampia
Ovvero, tiriamo in ballo qualcuno che domani non ci ammorba con la controrisposta

Qualche anno fa, quand’ero ancora una cristiana che si applicava a cercare un perché alle cose che viviamo nelle cose che vediamo, mi capitò di leggere “Le sette lampade dell’architettura” di John Ruskin. Adesso, Ruskin era un signore inglese dell’Ottocento, e la sua interpretazione dell’arte e dell’architettura che aveva tanto influenzato l’estetica vittoriana ed edoardiana, influenzò anche me e questo ben prima che conoscessi particolari della sua vita coniugale (per i quali vi rimando alla lettura di Guillermo Cabrera Infante, o, se non avete tempo, a Wikipedia). Comunque, John (l’ho nominato talmente tante volte che ormai siamo amici) scriveva più o meno questa cosa: che non ci sono che due vincitori della dimenticanza degli uomini, la poesia e l’architettura e che in un certo senso la  seconda include la prima perché essendo reale è più potente, e che era bene occuparsi non solo di quello che gli uomini pensano ma di quello che i loro occhi vedono tutti i giorni della loro vita. Contemporaneamente, scoprivo che Gropius aveva progettato Gropiustadt, il quartiere in cui visse la sua adolescenza tormentata Christiane F. quindi hai voglia a parlare di funzionalismo socialista. 

Amai così tanto queste due scoperte che un mese dopo stavo chiedendo una tesi in Storia Contemporanea sul racconto narrativo e filmico di Napoli nel decennio Ottanta, questo perché cambiare facoltà a due esami dalla laurea non era propriamente il caso e più che basarmi sull’architettura mi conveniva interrogarmi su un’altra cosa che tutti vediamo ogni giorno: la televisione. Finì che passai un’estate a confrontare giornali del decennio ’80 con i film sulla città usciti in quel periodo. Erano produzioni a diffusione popolare, erano commedie, erano sceneggiate, era Nino D’Angelo assieme a Massimo Troisi assieme al professor Bellavista di De Crescenzo,  era Peppe Lanzetta, era Nanni Loy,  era per capirci, quello che a tutti è capitato di vedere, e io non volevo fare altro che capire se quelli sullo schermo e dietro lo schermo s’erano inventati qualcosa o se la loro funzione era stata più che altro quella di organizzare e snellire e rendere leggibili cose che già sapevamo, ma di cui ignoravamo capo e coda. La verità era che le storie fornivano mappe emotive anche per le cose che si vedono fuori dalla finestra: a Napoli, poi, c’era l’aggravante, perché quando un film prendeva una piega da cronaca nera la cosa risultava comunque più tollerabile di un telegiornale (perché la violenza “organizzata”, illuminata dalle luci giuste, con le giuste battute e i necessari intrecci fa meno paura, questo lo diamo per assunto o è il caso che linki qui il saggio “Violenza televisiva e subculture dei minori nel meridione”?)

Comunque mi laureai, andò tutto bene, trovai persino parcheggio nelle vicinanze dell’Aula Magna e una settimana dopo lavoravo, da precarissima, in un’emittente locale: la quadratura del cerchio, insomma. Il problema fu che cominciai ad incazzarmi ogni volta che sentivo parlare di Napoli e di fiction su Napoli e di elucubrazioni mentali su Napoli. E questo non perché fossi una fan della censura, ma perché ero e sono una convinta sostenitrice del fatto che dire trecentocinquantasette volte una cosa non aiuta, anzi, è un danno. Insomma: la letteratura, i film, quello che, è quando il tema è questa città assomigliano a quelle mamme che  mentre uscite, vi chiedono se avete messo la canottiera. Lo sapete, no, che alla terza volta, con tutto il bene di mamma, la mandate affanculo.

Adesso, premesso che fossi io un regista un film su Scampia lo farei prendendo prima una telecamera e poi  l’R5, voglio dire giusto una cosina: non vi aspettate che una fiction abbia una funzione sociale del tipo “guardo la tv e mi indigno e lotto contro la camorra, la criminalità organizzata, la microcriminalità, i parcheggiatori abusivi e, giacché ci sono, anche contro il colesterolo”. Se una ripresa video potesse cambiare davvero la nostra capacità di responsabilizzazione oggi, avendo chiarissimo il ricordo filmato dell’ultima Emergenza Rifiuti, staremmo tutti a dividere certosinamente plastica, carta e umido e i giornali non titolerebbero: “nuovi roghi di immondizia in periferia”. Non è un film, genere d’evasione, a darci un paio di paccari in faccia e dire “scetati”, anche perché se un film, un telefilm o quello che è, fosse capace di svegliarci seriamente – non parlo di quel momentino di pisquanica volontà di cambiare il mondo perché “sono stanco di vedere la mia città rappresentata tanto a chiavica” -, v’assicuro che non avremmo necessità di produrne altri:  in momenti di recessione, basterebbe dare un occhio, chessò, a “Pianese Nunzio, quattordici anni a maggio” di Antonio Capuano e/o a “Certi Bambini” dei fratelli Frazzi. O, nei casi in cui fossimo fiduciosi e volessimo tenere conto che Scampia non è la foresta amazzonica e non c’è bisogno di Rambo, ma di una presenza costante e continua di chiunque possa dare una mano concreta, “Caro Diaro” di Nanni Moretti. Sempre che qualcuno non pensi che sia fantascienza dire: “Scampia, pensavo peggio”.