E la musica vecchia dov’é?

Venne il giorno in cui le note finirono. Le note sono così: sette, dodici, pensi di averle sulle dita, ma ti sfuggono le limitate possibilità di combinazione. Si sperava, allora, nelle parole: ventisei lettere, miliardi di lemmi, eventualità combinatorie pressoché infinite, tutte sotto la lingua. Nei corridoi, compositori e musicisti e parolieri,  ciascuno di loro fornito di  cartelletta color carta da zucchero contenente la segretissima Guida alle parole mai utilizzate e ai refrain meno noti si davano pacche sulle spalle. Ma fornire tante rassicurazioni ad un uomo non è mai cosa giusta, e il dubbio, uno solo, s’era insinuato: che fossero finiti i pensieri?

Non c’era tempo per pensar troppo, comunque. La ferrosa macchina dello spettacolo non ha freni: tutto è spettacolo anche lo stridere di marce. Per cui, anche in quel febbraio che stentava ad ingranare, bisognò portarsi in scena, o meglio, restarci. Le alte sfere avevano intimato al direttore artistico: Stiamo rimpiangendo i Jalisse. Se nessuno canta stasera, inventati qualcosa. Ma cosa ci si poteva mai inventare? Tre anni prima avevano tentato il colpaccio della mescla di linguaggi e dialetti: ne era nato un caso politico quando un notissimo autore napoletano aveva vinto con Tri pastiere cott in sul foeugh. Per i dodici mesi successivi fu paventata la secessione, fino a quando un referendum non stabilì che i cittadini volevano sì un Italia divisa, ma più che in nord e sud, gradivano l’eventualità est e ovest. Bisognò a ridurre a zero i conflitti: si tentò così la carta dell’unico concorrente, un ex cantante, e quella del silenzio: risultato clamoroso. L’uomo aveva stravinto senza mai modulare una sola parola per quattro serate di fila. Titolo della hit: Pausa. Ma, superato lo stupore del silenzio, l’anno successivo fu quello del crollo degli ascolti: le alte sfere, convintissime fosse colpa della novità delle canzoni in pidgin , fecero cadere un po’ di teste, senza rendersi conto che la gente da casa, dopo aver provato ad alzare volume l’anno prima, aveva capito di poter prodursi nella stessa esibizione spegnendo il televisore.

Quella sera sarebbe stata l’ultima sera.
Quando il conduttore salì sul palco, in un commiato, decise di tentare il tutto per tutto e a luci basse intonò l’unica canzone che sentiva di poter ancora cantare:

In questa notte di venerdì, perché non dormi, perché sei qui?
Perché non parti per un week end che ti riporti dentro di te?

Non era nostalgia, se lo stava chiedendo davvero.

Ma continuò, oh sì, andò avanti, perché i pochi presenti in sala avevano alzato la testa dando primi timidi cenni di vita. Al ritornello sembrava d’esser tornati al 1987.  Se note, parole e pensieri hanno un tempo di ridondanza, le idee devono vedersela solo con l’obsolescenza: ad afferrarne una in tempo, si può star saldi e sicuri. Dura poco, ma nel nulla è una garanzia di cambiamento di prospettiva. Il conduttore ebbe appena il tempo di dire: Fermi tutti, ho capito, e precipitarsi dietro le quinte alla ricerca di un telefono. La sera successiva il festival andò regolarmente in onda, come ogni anno. Ma invece della sfarzosa diretta dal grande teatro della cittadina costiera, bastò recarsi agli archivi della televisione. Canzoni uscite dall’ombra per pochi giorni e subito, subito tornate, ebbero la loro seconda possibilità:  “Franca ti amo”, Ivan Graziani direttamente dal 1985, diventò gettonatissima nelle assemblee d’istituto; Antonella Arancio con “I ricordi del cuore”, anno di grazia 1994, seppe raccontare a tutte le donne che cambiare la carta da parati quando lui ti lascia è cosa buona e giusta; Rudy Marra con Gaetano, 1991, diede tantissimo da pensare a tutti chiedendo: Come eravamo stupidi, come eravamo ingenui, ti ricordi, ti ricordi, ti ricordi?

A vincere fu Enrico Ruggeri dal 1984 con profeticissimo Nuovo Swing, e l’unico vero problema fu come premiarlo nel presente tornando indietro nel tempo.

L’edizione fu un successo. A musicisti, compositori e parolieri, venne riservata una sala stampa dove era possibile sentir snocciolare L’istinto del linguaggio, Pinker come un rosario. A recitare, senza alcun accento e senza aver quasi pubblico, una sconosciuta modella che in quelle settimane viveva il brevissimo periodo che conoscono tutti gli esemplari femminili della specie, quando non si è più una ragazza e non ancora una donna e si aspetta, ferme, il collo teso e la testa puntellata da un filo invisibile, un cenno dal passato o dal futuro credendo decisivo ogni attimo, senza capire che gli attimi hanno anche loro un numero limitato. Una volta inanellati sui birilli, come nel gioco che si fa da bambini, nulla potrà più sorprenderti. E che non sia questa la moderna concezione di salvezza: un mondo in cui solo il passato merita la sua parte di destino. In questo senso Sanremo 2018 meritava pienamente di esistere.