Bye Bye Bombay

Capitemi, dopo le mie brave ore ore di lavoro, avevo camminato per un kilometro e poi avevo bevuto della birra artigianale rossa e avevo pure fumato un po’ troppo e la tivù sparava immagini beige sulla Cina, la Muraglia e il drammatico ricordo di Mao, ormai solo un santino da collezione per i giovani. Capitemi, il libro appena comprato in Feltrinelli si era rivelato meno attraente del previsto. E, capitemi ancora, avevo dimenticato di comprare il latte detergente quindi seppure stanca, la mia faccia diceva ancora: eccomi pronta per qualsiasi cosa ci sia da fare!

Il fatto è che c’era una discussione in corso – non nel momento, ma nell’aria – e per la seconda volta nella mia vita – io la volevo proprio affrontare. Di solito, almeno a quello che ricordo, litigare mi piace, ma solo se ho degli interlocutori capaci. Non parlo di capacità oratoria, no: io parlo di quella bellissima azzurrissima dote che è il non serbare rancore. Ciò permette a me e all’interlocutore di turno di dirci le cose peggiori e venti minuti, mezz’ora, due ore dopo, chiuderla lì, circoscrivere la lite ad un momento e non portarsi niente di lei nel prossimo. Sono pochi quelli che ci riescono. E io mi considero una di loro.
Posso ora confessarvi che la persona con cui volevo discutere ero io stessa, me, la qui presente.
Posso anche dirvi che la domanda che volevo farmi era napoletanissima, un “Ma tu ‘o vero faje?” che sarebbe un “Ma tu fai davvero sul serio?” ma più diretto e anche più canzonatorio.
E me lo volevo chiedere perché sapevo che la risposta sarebbe stata “sì”.

Non mi dico mai di sì facilmente. Al massimo mi dico “forse”. Non so se si chiama saggezza o paura questa cosa, ma so che ce l’ho o meglio, ce l’avevo, soprattutto quando io e me stessa tornavamo ad essere una sola persona davanti agli altri che mi vedono biondina e con gli occhi chiari e pensano che io sia mezza scema. Ecco, in quei momenti sociali, ragazzi, per me è sempre stato poco difficoltoso mostrarmi per come sono. Però ho i miei modi, come immagino un po’ tutti, ecco: io fornisco indicazioni, mappe della mia vita. E ho sempre avuto il timore di essere strutturata al punto che GoogleMaps avrebbe potuto prendere da me l’idea di rendere il percorso facile tanto da permettere un tour virtuale lungo le strade. Adesso, è successo che mi sono accorta di due cose. La prima: in quelle strade, nelle mie strade, in me mostrata agli altri, da un paio di mesi più o meno, hanno cominciato a comparire semafori, divieti di sosta, negozi con il cartello “Io qui non posso entrare”. La seconda: non ci vedo niente di male, non più. Non so se è perché nascere e crescere in provincia, in un piccolo paese, ti fa pensare che a chiudere le porte al mondo, anche solo una porta al mondo, quella che ci andrebbe a perdere saresti tu, anche se il mondo non è che s’è comportato bene. E non so se è perché a me non piace ricordarmi i torti subiti, mi sembra da esibizionisti. Ma io che ero la regina delle porte aperte, un giovedì notte, ho capito che ne avevo chiuse un bel po’. E non me ne sono vergognata. Non ho pensato di aver esagerato. Non sono corsa a riaprirne nessuna.
È una vittoria, anche se non può sembrare.

Un’estate di tardi anni Novanta, mi portai al campo sportivo del paese, dove si teneva non mi ricordo quale festival di musica alternativa, almeno per l’epoca. Un concerto a sera, due cambiate da portarsi dietro perché il campo era sì sportivo ma era anche di terra battuta e dopo aver pogato per un paio d’ore sembravi reduce da Woodstock, la me quindicenne fu introdotta agli Afterhours. Avevo molte domande all’epoca e tante ne facevo, a me e agli altri. La risposta di Agnelli & Co fu da coro greco, qualche anno dopo, con una canzone, quella che dà il titolo a questo post. Sebbene semisommersa da altre hit estive,  il verso che dice “Non si può giocare con il cuore della gente se non sei un professionista” mi colpii alla nuca. Per continuare con uno dei ritornelli che non posso esimermi dal cantare, a tutta voce, davanti ad ogni dolore che ho avuto dal 2002 in poi, e cioè: “Io non tremo. È solo un po’ di me che se ne va”.
Me lo sono detta spesso, in queste settimane così piovose e fresca da sembrare novembre. Me lo sono detta anche prima, in realtà, quando ho capito che avevo subito una perdita e che non volevo mi succedesse mai più – non di perdere, ma di subirne gli effetti senza poter far nulla, intendo – e allora giacché la vita bene o male porta tutti a perdere qualcosa o qualcuno, preferivo governare le uscite, dirmi che sono cose che capitano, le cose ci sono e poi non ci sono più, come diceva quel mio ex (e io non lo capivo mai, che era l’unica cosa vera che mi aveva mai detto). Non so se ci sono riuscita e se ci riuscirò. Però io non tremo, no. E sì, é solo un po’ di me che se ne va.

Commenti

  1. Anche io ricordo quella canzone all’alba degli anni Duemila, sembra quasi un’altra vita. Per il resto è sempre piacevole leggerti, cara RRF.