Lettere da
Piazza Bellini

Sto seduta al tavolino di un bar, il solito, ho ordinato thé verde alla pesca che adesso bevo direttamente dalla lattina perché nel bicchiere c’è troppo ghiaccio e sembra non esserci spazio per altro. Ho anche una ciotola di salatini davanti, di fianco alla ceneriera, ma non li mangio, li allontano sul bordo del tavolino per tenermeli lontani dalla portata.  Non che ne abbia voglia o rappresentino una tentazione, ma per consumare il tempo io potrei allungare una mano e mangiucchiarne qualcuno, quando sarò stanca di fumare e le sigarette nel pacchetto cominceranno a sembrarmi poche.

Comunque, nemmeno il tempo rappresenta un vero problema: non aspetto nessuno e il sole sarà alto per un’altra ora. Pure il vento, la cosa che d’estate mi manca di più, sembra dover continuare a muovere le foglie delle piantine decorative in eterno. Capitano giornate come questa, si direbbero giornate libere, ma io preferisco dirle vuote, in cui l’immobilità delle cose mi fa paura. E come in un sogno vigile io penso: potrei restare qui seduta in piazza Bellini per giorni, settimane intere, senza che nulla cambi e nessuno venga a cercarmi, chiedermi se ho mangiato o no. Gli autobus – mi dico nel sogno – continuerebbero a passare e i ragazzi a baciarsi sulle scalette della Brau. Io avrei sempre la stessa maglietta viola e la stessa gonna, come in un fermo immagine e sentirei di non saper fare altro in vita che allungare le soste, scegliere percorsi lunghi e camminare, stancarmi e fumare e ordinare thé verde alla pesca mentre conto il tempo che ci vuole da qui alle sei.

Aspettare, si dice, aspettare. Non sono mai stata buona ad aspettare. Non so se vi è mai capitato, da piccoli, che minacciassero di picchiarvi, una volta a casa. Io tutte le volte facevo più casino sul momento, le mazzate le volevo subito se proprio, me ne sarei presa pure il doppio pur di non dover aspettare il portone le chiavi le scale la porta. Un piccione atterra sul tavolino attirato dai salatini che non ho toccato. Lo mando via dando un calcio con la gamba destra accavallata alla struttura di ferro. Il piccione salta, alzando le zampe che sono rosse e nodose e potrebbero di certo graffiare. Perché se il piccione volesse io morirei di una malattia infettiva mentre lui mangia tutti i salatini del mondo litigandoseli con gli altri come lui, tale a quale a quel film. Ma il piccione non vuole e non conosce Hitchcock, è un animale stupido, poco cosciente delle sue possibilità. Dovrei dire che il piccione è un animale pacifico, quindi vola basso, si ferma sui sanpietrini e quando batto i tacchi s’allontana veloce. Consumare il tempo è un problema, rettifico.

E’ per questo che funziono meglio nelle scadenze brevi, nella fretta, nei minuti contati, nel ritmo cadenzato. Sono efficiente, pulita, mi dico, la precarietà ce l’ho nel sangue o nella carta astrale o sotto le unghie, il mio tempo migliore è quello corto, quello che fa correre, quello che non lascia spazio alle attese. Avere tempo libero non mi è mai riuscito per davvero, mi dico ancora, e i salatini sono ormai immangiabili. Chiamo la cameriera e le chiedo se posso utilizzare il pc. Non le spiego che internet è il nuovo modo per passare un tempo che non ci è dato di vivere. Evito di raccontarle che siccome tutte le nostre foto più belle sono su facebook un giorno guarderemo nei nostri cassetti segreti e troveremo solo occhi rossi e brutte smorfie, stati d’animo poco riusciti o troppo lunghi rispetto allo standard massimo di 140 caratteri di twitter. La bruttezza sarà la nostra l’ultima confessione.

La cameriera fa segno di sì. Sono una cliente abituale. Mi siedo sugli sgabelli alti e mentre la radio canta una canzone che non voglio sentire, scrivo la lettera senza pensarci troppo. Inviare?, chiede il sistema operativo elementare, o forse dovrei dire impulsivo. Clicco sul no. Penso che avrò tutto il tempo per fare domande, e che fare domande per posta è un controsenso, le domande si fanno al momento.  Ma il mio personale inganno di questi anni elettrici è aver creduto che le attese fossero finite, bastava un adsl a 20 mega.

Pago alla cassa il mio thé verde alla pesca ed esco. Fuori, nel marzo napoletano che sa già troppo di maggio e giugno, in questo duemila e rotti che somiglia identico uguale a quello di uno due anni fa, nell’aria tenera che odora di fresie – presto non sarà già più tempo – il piccione ha preso possesso del tavolino. Senza fretta pilucca nella ciotola dei salatini, alza il becco di scatto per buttare giù le briciole. E per quanto ciò mi faccia schifo, ci passo lontano volutamente per non farlo volare via. Almeno, mi dico, lui ha saputo aspettare.

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