Tagbuoni propositi

Propositi per il 2017: trovare il Croccante all’Amarena

Storia edificante sulla chiusura di un anno di merda (se ne hai avuto uno) e l’inizio di un altro sperando che poi magari sia vero, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. 

Una volta mi sono spersa nella campagna toscana. Ero su un autobus che da Pitigliano mi portava ad Orbetello dove avevo un treno da prendere. L’autista – per simpatia ed economia lo chiameremo Vincent D’Onofrio Giovane (ci rassomigliava davvero, giuro) – prese tutte le curve all’ultimo momento, girando il volante all’ultimo secondo utile e girandomi anche lo stomaco e la nervatura per tutto il tragitto. Ad un certo punto Vincent fermò l’autobus in piena Maremma, scese e si allontanò senza dare spiegazioni. Davvero: sparì nella boscaglia fitta senza dire “a”Con me c’erano altre (poche) persone e nemmeno tra noi ci dicemmo niente, no: restammo muti e in attesa come un foglio bianco. 

E niente, ci ho pensato stamattina che fa freddo gelo anzi, come si dice dalle mie parti, si chiatra , mancano 2 giorni al 2017 di cui mi piacciono solo le possibilità e il capo di abbigliamento più caro che ho è il giubbotto vinaccia con la pelliccia che mi fa sempre sembrare una signorina dell’Est con le guanciotte rosse, i capelli fini e chiari chiusi in una treccia. Pensavo a Vincent, di cui ignoro nome, reali motivazioni ed essere -magari è un pazzo omicida, non so -. Pensavo a lui perché nel 2016 anche io mi sono fermata nel bel mezzo del nulla. Pensavo a lui perché la cosa che ho fatto più spesso in questi ultimi 12 mesi è stato smettere di guidare metaforici autobus. Ho smesso di credere, ad esempio, che il lavoro sia un fatto in cui mortificazioni alla propria professionalità, rinunce ai propri sogni e sfuriate allucinanti per ogni volta in cui non dici “sì” con un sorriso timido da camerierina muta, quasi fosse tutto un corollario necessario ai soldi pochi, maledetti e subito e alla precarietà infinita – professionale, emotiva, quotidiana. Anche se c’è voluto molto tempo perché ricominciassi a credere che non tollerare più nulla del genere non fosse un fatto da donnette (perché te lo fanno credere, oh sì, eccome). Ho smesso di credere di poter amare da sola per due o per tre o per altre quattro o cinque o sei persone anche se ho sempre pensato di sì, anche se ho sempre creduto a quella frase, “se io ti voglio bene tu che c’entri?”. Tutto ciò è roba tosta, una gran rottura di palle e di rapporti e di gente che ti guarda con un gran punto interrogativo disegnato sulla faccia. 

Ma Vincent tornò: non era andato a spararsi un colpo in bocca come tutti avevano temuto né aveva trovato il colpevole di un crimine efferatissimo con l’aiuto della sua fida collega bionda come tutti avevano sperato, almeno per giustificare la fuga, no: Vincent riemerse come si riemerge da un viaggio nel tempo: dopo mezz’ora giusta e con un gelato arrivato direttamente dagli anni ’80: il croccante all’amarena.

E dunque l’insegnamento per il 2017, la cosa da cui ricominciare, quella che resta perché qualcosa deve pur restare, almeno come termine di paragone, è proprio questa piccola forma di desiderio nel voler fare anch’io le curve a modo mio come ho fatto, voler cambiare anch’io idea nel mezzo del nulla come è accaduto. Voglio il mio croccante all’amarena, insomma. Per questo, per tutto questo, sono dispostissima a fermare il tragitto del bus e andare a cercarlo “where nothing is compromised/ nothing is lost/ when everything is realized/ nothing is crossed” come dice una delle mie adorate canzoni che non conosce nessuno ed è meglio, così la musica che ascolto mi sembra tutta il frutto di un accordo segreto di cui solo io e un artista misconosciuto dell’altra parte del globo siamo a conoscenza. In questo caso si tratta di un intero gruppo, quello dei Junip e la canzone è Don’t let it pass“. 

 

Non lasciarlo passare. Ma cosa? Credo che la canzone parli del tempo. Dirlo davanti ad un altro giorno del 2016 che anche quasi finito sembra interminabile mi pare una specie di miracolo. A distanza di sicurezza di 12 mesi da quella che ero, oggi vivo sapendo di essere libera. E anche se alle volte ciò significa essere sola, ora so che vorrà sempre e comunque dire essere forte. E questo è meglio di qualsiasi altra cosa, qualsiasi, sempre.

Dalla sottoscritta, i più sinceri auguri per un inizio per cui non c’è parola, che il futuro ha sempre, sempre, sempre, più fantasia di noi. E menomale!

Buon Croccante all’Amarena a tutti quelli che si arrischiano a cercarlo ♥

Walk of life
racconto per il nuovo anno

Alle 13,58 del 10 dicembre alzo il bicchiere e brindo.

Lo so, sono in anticipo e raggiungere qualcosa prima del tempo ha i suoi rischi, come quello di arrivare al traguardo da soli, ma in questo caso si può fare: l’unico posto che ho toccato prima che fosse il momento è stato il bancone del bar, e il bancone del bar, per quanto ben fornito sia lo scaffale degli alcolici, non è mai la luna.

Per questo motivo non ci sono rimostranze da fare se le televisioni non riprendono la scena, se i giornali non ne parleranno e se nessuno si congratulerà con me. Il tragitto che ho fatto per essere qui oggi è cosa ignota ai più, e per raccontarvi tutta la storia il tempo a disposizione non sarebbe abbastanza, vi basti sapere che è stata dura. Cosa molto più indicativa del conto del miei guai – non vi penso insensibili, tranquilli, solo occupati coi vostri – nessuno se ne è accorto. 

Non vi biasimo: non è cosa naturale pensare che dietro una giovane donna che raggiunge il banco di un bar e ordina un prosecco in un pomeriggio pieno di sole ci sia un percorso militare. Forse qualche indicazione potreste averla da quel velo di stanchezza che mi si è posato addosso come una polvere, o dal modo sbrigativo  in cui sono acconciati i miei capelli, ma ho l’età in cui è più semplice riconoscermi una notte brava con conseguente mal di testa, che biglietti di treni che risalgono e riscendono l’Italia, decisioni prese in solitudine e senza paura, e senza domande tranne: Come arrivo in centro?

In questi tragitti, spesso parlo con uomini. Non è una questione di genere, non si tratta di attrarne uno più di un altro, è che all’ora in cui viaggio io ci sono solo tizi in giacche e cravatte e valigette che leggono il Corriere: non sono una donna in quel momento, sono l’intruso del gioco, loro mi trovano, mi pescano con lo sguardo puntando le mie cuffiette o i miei libri o i miei stivali. La maggior parte, per mia fortuna, resta in silenzio. Altri sorridono e pensano che il sorriso basti a farmi prendere la parola, come fossimo sul palco alla consegna di un Oscar, e sì che sto recitando, e anche bene, la parte di quella che è sveglia anche se dormo, in una parte di me, a sonno pieno, e non mi sveglia niente.

Tornavo da una città fredda per giungere in un’altra città, con la temperatura più alta, ma sempre ammalata di vento, e mi si siede accanto lui, non si toglie neppure il cappotto come se due ore di viaggio fossero un fatto breve, cala la coppola sugli occhi e si mette a dormire. Dividere il sonno con un perfetto sconosciuto, se questa può chiamarsi promiscuità è la formula che mi piace di più. Ci hanno svegliato i rumori dell’arrivo, solo allora mi ha guardato e mi ha chiesto: Sei sola?
Non rispondo a domande del genere. O meglio, non rispondo nel modo in cui ci si immagina. Infatti gli ho chiesto ce credeva in Dio.
– No, non proprio.
– Allora sono sola, esattamente come lei.

È infinitamente raro trovare qualcuno che sappia dire qualcosa in rimando a cose del genere. Se lo trovate, tenetevelo stretto. Significa che avete un alfabeto comune. Che sapete uno i punti deboli dell’altro, i punti deboli sono sempre nella lingua.

Non sto dicendo che le parole sono tutto: le parole non sono niente. Sto dicendo che l’atto della risposta invece lo è. Ed è qualcosa di cui si dovrebbe esser grati, sempre e comunque. Se trovate qualcuno che sa rispondervi sempre e comunque, ecco, ringraziate Dio che se c’è o no, in fondo non ne ho idea, non come ho lasciato intendere all’uomo che forse s’aspettava d’essere accolto come Ulisse, e invece mi è rimasto lì muto, come se gli avessi tirato uno schiaffo. È sarcasmo, volevo dirgli, lei ne è semplicemente sprovvisto o ha avuto una giornata dura? Poi ho lasciato perdere.

Un tempo amavo un uomo che mi incolpava di possedere poca ironia, “quanto un criceto”, più precisamente. Un tempo ne amavo un altro che diceva che avevo l’educazione sentimentale da rifare e quando provavo a controbattere silenziava il nostro rapporto e lo metteva in stand-by come un elettrodomestico. Per un certo periodo ho parlato come se volessi prendere qualcuno a calci. Metaforicamente, s’intende. Poi mi è passata.

Non ha cambiato molto il mio modo d’essere questo cambio d’alfabeto: resto una che va veloce, ha sonno, e brinda con un prosecco alle due di pomeriggio, ma devo dire che l’esser pungente può tenere lontane molte cose spiacevoli. E mentre ero persa in questi pensieri che a voi sembreranno poca cosa – li avrete già letti, e immagino starete già traendo le vostre personali conclusioni in merito – , l’uomo ha parlato ancora, ha detto che per il nuovo anno aveva dei buoni propositi: perdonare e dimenticare.

Dunque, lei si ritiene Gesucristo e soffre di arteriosclerosi, ho suggerito.

Finalmente ha riso e mi ha lasciato libera di alzarmi in piedi, prendere la borsa, salutarlo, scendere, cercare un autobus, prendere una metro, attraversare la strada, ordinare il mio prosecco, e raccontarvi questa storia.

A proposito, giacché ci siamo: si dimenticano e si perdonano solo le cose per cui non si hanno più parole, o ironia, o sarcasmo. Vi auguro di non averne: io, personalmente, ho brindato proprio a questo.