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La regola Bob Dylan

How many roads must a man walk down before you can call him a stronzetto? Cosa sarebbe successo se al posto dell’Accademia di Svezia ci fossimo stati noi e in luogo di Bob Dylan una qualsiasi delle nostre scuffiate. 

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È capitato a tutti – perché è capitato, vi vedo – di fare la figura dell’Accademia di Sveziainsignire il Bob Dylan di turno di un’onorificenza importante e un credito di circa 900mila euro metaforiche: d’accordo, non abbiamo mai indetto una vera e propria conferenza dichiarando al mondo che Tal dei Tali rappresentava per noi il “creatore di una nuova poetica espressiva all’interno della tradizione”, ma abbiamo di sicuro chiamato gli amici e le amiche e parlato loro del rarissimo, meraviglioso esemplare d’essere umano che ha conquistato il nostro “Nobel alla Letteratura” davanti ad un aperitivo. Poi, forti dei pareri ricevuti – di solito tra gli amici serpeggiano pareri contrastanti – abbiamo deciso di comunicare al diretto interessato la nostra decisione, certi che l’avrebbe apprezzata che qui parliamo del Nobel, mica pizze e fichi.

La scena è più o meno questa. Per economia di pensiero, fate conto di essere a Stoccolma. Enjoy. 

– Allora, negli ultimi tempi ho pensato molto a Bob Dylan.
– Ah. Eh?
– E ho deciso di dargli il Nobel alla Letteratura.
– Ma sei sicura? Guarda che quello è un tipo strano, secondo me se la tira già anche troppo.
– Guarda, ci ho pensato assai. C’era anche Philip Roth…
– Esatto: Roth merita.
– Ma Bob mi piace proprio perché è un po’ scornoso, insomma… A Roth so che farebbe assai piacere, che se lo merita, che non mi deluderebbe, ma il mio cuore mi dice che Dylan è quello giusto.
– Scusa, e Murakami? No dico, Murakami? Dolce, gentile, con tutta quella filosofia giapponese e i gatti che spariscono: se vuoi fare una scelta controcorrente anche lui…
– Murakami è troppo new age. Ad uno così tu dici che hai avuto una brutta giornata in ufficio e quello ti risponde parlandoti di universi paralleli in cui in ufficio comandi tu ma non te ne ricordi.
– Già. Poi ogni volta che parla pare Buddha anche se ti sta dicendo del flipper a cui ha giocato quando aveva 20 anni.
– Una mia amica ha detto che è capace di chiamarti alle 4 di notte per dirti che ha i calzini spaiati e che vuole sapere se conosci la differenza tra senso e significato.
– Ua! Finisce che per togliertelo di cuollo devi sparire completamente, roba che manco “Chi l’ha visto” e Federica Sciarelli riescono a trovarti.
– E quindi la tua scelta è Dylan?
– Sì, ragazze, sono quasi sicura, cioè, come dire: Bob ha innovato la tradizione! Non era facile. Poi sembra sempre così posato e timido ma è anche un uomo impegnato, che rifiuta il sistema! Ha visto un neonato circondato dai lupi, ha visto un ramo nero che stillava sangue, ha visto una stanza piena d’uomini coi loro martelli sanguinanti!
– Ah, sì? Che film è?
– Sto parlando di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, idiota. Sei un po’ prevenuta, secondo me.
– No, assolutamente. E secondo te come la prende questa cosa che vuoi conferirgli il Nobel, è interessato?
– Mmm, non lo so: secondo me mai nessuno gli ha fatto pensare che potesse aspirare a tanto. Ma è il minimo per uno che ha scritto “Like a Rolling Stone”. Mi sento così su di giri al pensiero di lui in lacrime mentre gli dico: “Bob, quest’anno il Nobel sei tu, hai visto, non sei più una preta di mezzo alla via”.
– Secondo me se ne fuje.
– Perché dici così?
– Mai ascoltato “Just like a woman”?
– Sentite, basta, mi state distogliendo. Mo gli scrivo su Whatsapp e vediamo che dice. Aspettate la risposta con me, vero?
– Eh.
– Ti pareva.
– Facciamoci un altro giro, vah.

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E dunque avete scritto al Bob Dylan del vostro cuore. Passano due minuti e niente: il telefono rimane muto. Senza farvi vedere dalle amiche, controllate che ci sia campo. C’è. Poi compare un segno. Anzi, due. La doppia spunta blu. 

– Non risponde?
– Mmmm. No.
– Che gli hai scritto?
– Allora, ve lo leggo: “Caro Bob, come stai? Spero tutto bene. Ti scrivo perché ho pensato spesso a te negli ultimi tempi, alle tue parole soprattutto. Mi hanno fatto sentire così ispirata, davvero: mi è parso stupendo che uno come te sia al mondo. Hai liberato la mia mente. E poi: nessuno più di te si è accanito contro il mito e si vede che ti diverti a spiazzare tutti. Insomma, io non so come dirtelo anche se credo tu abbia già capito: ho pensato che sarebbe bello vederci perché vorrei conferirti il Premio Nobel alla Letteratura del mio cuore”.
– Daaaaai, non puoi aver scritto così!
– Perché?
– Non glielo dovevi dire! Ma non lo sai come è fatto? Secondo me non dovevi nemmeno scrivergli: lo chiamavi, poi mettevi giù al terzo squillo, lui ti richiamava e tu dicevi qualcosa come “scusa, mi è partita una chiamata…Come stai?” e da lì in poi cominciavate a parlare, sondavi il terreno, capivi se era interessato senza esporti troppo.
– Uffa. Perché non l’hai detto prima?
– Vabbeh, dai, può darsi che non abbia campo lui.
– Ha visualizzato.
– E non ha risposto.
– Magari è impegnato o magari non sa cosa fare…Povero piccolo.
– Chiama il cameriere, vah.

Ad un certo punto, più o meno intorno alle due, il cameriere che vi ha portato 6 long island e tante olive viene pure a dirvi che è il momento di chiudere e di pagare il conto. Consci della figura di merda epocale, offrite voi per tutti. Lo fate a ragion veduta. Poi vi viene una grande idea.

– Ascoltate, perché non cercate di capire cosa ne pensa?
– Noi?
– Sì. Bob non è amico di tuo fratello?
– Ahà, ma mio fratello lo sai come la pensa…
– Niente ma. E tu, Bob Dylan non lavora con tua cugina?
– Sì, ma che faccio, chiedo a mia cugina perché Bob non ti risponde?
– No, no: quello che vi chiedo è solo cercare di capire se ha capito l’entità del Premio! Cosa ne pensa, insomma.
– Senti, tu sei l’Accademia di Svezia e ti sta già facendo mettere sotto ai piedi: ascolta una scema, chiama Roth: digli che ti sei sbagliata, che hai capito, che il Nobel lo dai a lui.
– No ragazzi, mo è un fatto di principio. E poi mi fido di Bob, ha un animo così sensibile.

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Passano due settimane. Frattanto vi siete fatti così tanti film e paranoie che David Lynch vi ha chiamato e chiesto se può prendere spunto per la nuova serie di Twin Peaks. Avete chiuso la telefonata in fretta e furia pensando qualcosa tipo: maronn’ chist’, se mi tiene occupata la linea e mi perdo Bob gli faccio vedere io Laura Palmer.  In ogni caso quei giorni vi sono stati utili. A cosa? Ma a ricordare, signori. Ad esempio quella volta che avete conferito il nobel a Harold Pinter, nel 2005, ma lui non è venuto a prenderselo perché era gravemente ammalato. O quella in cui avete scelto Elfriede Jelinek, 2004, che vi ha risposto di non essere adatto a farsi trascinare in pubblico (un po’ di agorafobia). Addirittura c’è stato quello che era terrorizzato di lasciare il suo paese perché poi non l’avrebbero lasciato rientrare: il dissidente sovietico Aleksandr Solzhenitsyn, nel 1970. Insomma, ci siete già rimasti male in passato ma poi le ragioni dei non-premiati vi hanno fatto capire, accettare e lasciare andare (una cosa molto, molto, Murakami, sì).

In ogni caso, il signor Dylan che pare non aver riconosciuto l’importanza della vostra onorificenza, ha ancora il suo fascino: quello del poeta maledetto, nel senso che è un poeta e voi gli lanciate le maledizioni in rima. Del resto ha sempre voluto seguire solo la propria strada e con lui le maniere forti non funzionano e non vi sentite di scrivergli: “Brutto stronzo, manco un grazie non sono interessato ciao, ma che sfaccimm’ “. Non vi risponderebbe comunque. No, voi, mentre gli amici ormai vi ridono appresso e fanno battutine sarcastiche sui social, avete iniziato a chiamarlo a telefono e lasciare messaggi in segreteria.

-“L’utente da lei chiamato non è raggiungibile. Stiamo trasferendo la chiamata alla segreteria”.
-Ehi Bob, Bob? Ci sei? Ehi, è il settimo messaggio che ti lascio, mi richiami?

-“L’utente da lei chiamato non è raggiungibile. Stiamo trasferendo la chiamata alla segreteria”. — Insomma, Bob! Anche se non vuoi il Nobel, va bene, posso capire, ma parliamone. Davvero, magari sono stata avventata, magari ti ho spaventato… Richiamami. Giuro che mi interessa sapere solo come stai.

Per quasi due settimane non avete nuove. Ad un certo punto vi scocciate e dopo un paio di spritz fate come  Wästberg, il presidente del Comitato per il Nobel alla Letteratura: dite agli amici che Bob Dylan è un grande, sì, ma è pure un gran maleducato arrogante! Subito dopo erompete in lacrime citando l’amico di Bob, tale Francesco de Gregori: la vostra faccia ricorda davvero il crollo di una diga. Controllate se avete il numero di De Gregori: magari può aiutarvi.

E poi, poi ecco il miracolo: Dylan vi richiama!

-Ragazzi, mi ha appena chiamato!
-Chi?
-Bob Dylan!
-Aaaah, ancora appresso a chist’ staje. ‘A faje cu’ l’ova ‘a trippa!
-Ma quanto sei stupido! Ha detto che è onorato!
-Sì, certo. Dopo 2 settimane. Si vede che era sconvolto e non sapeva articolare più suono e per dire due parole ha dovuto rivolgersi ad un logopedista.
-Sei politicamente scorretto. Davvero, mi deludi.
-Seh. E quando vi vedete?
-Beh, gli ho detto che il 10 dicembre c’è una festa, una cosa un po’ formale ma dai, è una festa, siamo sotto Natale, insomma, una cosa romantica… Ci facciamo una passeggiata a Djurgården, la luce bassa… Ah, sarà bellissimo…
-E lui che ha detto?
-E… in verità non ha risposto.
-Ossignore liberaci, n’ata vota?
-Aspettate, c’è una sua email! Miscredenti!
-Leggi, dai.
-Sì.

(dopo 20 minuti)

– Ehi? Allora? St’email che dice?
– Oh, no niente, ragazzi…
– Come niente.
– Dici che ha detto ‘stu strunzill, mo vado a prenderlo dove sta e gli dico “Oh, non si tratta così la mia amica Accademia di Svezia!”
– No, davvero, ragazzi, io… Io non so perché, perché sbaglio sempre, ogni volta è così, mai nessuno mi sostiene, sempre tutti scontenti delle mie scelte! Mica come mia sorella che è nel campo Scienza e nessuno le dice niente perché nessuno capisce un cazzo… A me sempre tutti a mettere bocca!
– Ma che c’entra mo’, dicci che ha detto Dylan!
– Ha detto che non viene.
– Ha detto che non viene?
– Sì. Ha detto che sta impegnato con il lavoro.
– Aspetta che chiedo a mia cugina. Hanno le date dei turni sul sito internet.
– Okay.

(dopo altri 20 minuti)

– Accademia, ci sei?
– Sto qua, dimmi tutto.
– Ehm. Ho parlato con mia cugina. Bob va in ferie il 24 novembre.
– Ah. Quindi non c’ha già una riunione importante a cui non può mancare?
– No. Ferie. Dal 24 in poi.
– Chiama Roth. Ascoltami.
– No, no, il premio va a Bob. Non è che uno non viene a ritirarlo e perde il Nobel perché lo si dà al primo che capita per il Konserthuset.
– Se se, pensala così tu: Roth non è il primo che capita e poi chiodo schiaccia chiodo è la strategia vincente!
– No, no, io devo riflettere, ecco. Se ne parlerà quando mi sarà passata.
– E cioè?
– L’anno prossimo.
– Come vuoi. Comunque c’è una lezione in tutto questo.
– Sì?
– Certo.
– Dimmela. Ti prego, ho bisogno di capire.
– L’anno prossimo chiama Murakami.
– Perché?
– È giapponese. In Giappone tengono assai alla forma, sono gentilissimi: secondo me con lui basta che gli scrivi “Ciao” ed è fatta!

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Se sei in vacanza goditela. Perché tornerai.

Vacanze come vuoto da riempire.

Di sveglie al mattino presto che non suonano, basta la luce che entra dalla finestra sul letto, bastano le biciclette (quelle elettriche fanno il loro modesto rumore, tipo auto da corsa)
Di colazioni lente, una macchinetta del caffè che continua a sporcare tutto, anche lei fuori dai ranghi, anche lei in ferie d’agosto, puoi stringerla quanto vuoi (riusciremo a capirci solo al penultimo giorno di vacanza, e comunque non mi fiderò di lei per l’ultimo caffé prima della partenza, sia mai che sporchi tutto di nuovo)
Di mare che decidi dall’alto del belvedere quale sarà il tuo posto, da un lato o dall’altro, oltre gli scogli o prima, in una geografia della tranquillità che durerà due ore appena, prima che qualcuno decida di stendere il suo telo proprio accanto a te (e la sfida sarà non chiedere il perché, diamine, con una spiaggia intera).
Di acqua fredda e pulita che tanto vale tuffarsi subito, stare lì sulla riva ad acclimatarti è un fatto di vergogna e di pescetti che ti nuotano tra i piedi facendoti il solletico.
Di tuffi semplici, di barche troppo vicine, di materassini gonfiabili e ombrelloni gialli di carta che il vento non riesce a portare via (ora abbiamo una specie di diplomino, “piazzatori di ombrelloni che non si muovono e non volano contro la roccia ad ogni folata”).
Di Murakami che è tornato ad essere il tuo migliore amico, quello con cui parli di niente e sembra importantissimo ogni volta.
Di giornali di casa tua che adesso sembra lontanissima, le notizie sono monumenti di cui conoscevi tutti gli angoli ma solo ora le guardi per bene e sai già tutti gli spigoli in cui altri ancora si impigliano, per forza o per piacere.
Di borse frigo, di panini e salumieri che hanno ancora la cortesia di far passare i bambini dietro il bancone per regalargli un pezzo di mozzarella o una fetta di prosciutto, così non si guastano l’appetito con una merendina (una cosa così non la vedevo da quando l’infante che scavalca la fila e va a prendersi un pezzetto di qualcosa non ero io).
Di fruttivendoli dal nome simpatico – Silverio è il mio – che hanno peperoncini fortissimi, origano di produzione propria, meloni sempre buoni, ottimo vino bianco fatto in casa e se chiedi un po’ di basilico ne puoi ricevere una busta intera, buona per una caprese ma anche per far profumare tutta casa.
Di limoni dolci al punto che mangiarsene uno è un piacere.
Di pranzi fatti con circospezione perché sennò arrivano le formiche (credo avessero carpito il nostro orario, sennò non si spiega).
Di raccolte differenziate fatte con piglio, dai, è semplice (per poi tornare a casa e chiedere: perché non la facciamo anche qui? e sentirsi rispondere: eh, in quali cassonetti?).
Di sonni pomeridiani al fresco sotto l’occhio vigile di Topolino e Paperino e Pippo, disegnati sulla parete della casa che hai preso in fitto che se ad altri farebbe piacere restare adulti anche a mare, a te no, a noi no: noi siamo bambini, davanti al mare.
Di lenzuola fresche, di vento e di pelle che tira un po’ per il sale ma che ti importa? C’è una bottiglia riempita d’acqua e messa al sole a riscaldare, c’è una doccia più consona da fare ogni volta che vuoi.
Di radio accese sulle canzoni che non avresti mai ascoltato, anzi, tollerato.
Ora suonano e capisci che il problema non è la musica, non è il testo ma il ritornello. Come si fa a “vivere a colori” se Alessandra Amoroso dice che non c’è un segreto per farlo? Lo si fa e basta, mandando “all’aria tutti i nostri piani, riavviciniamo i sogni più lontani“. Una sua amica di compilation estiva le fa da coro greco, e non sai come si chiama ma canta: “la vita che cos’è? un abbraccio al sole” e c’ha ragione, vorrei dire, anche quando canta “non saremo mai distanti e non cercheremo mai di tradire i nostri sensi” che poi in realtà e proprio quello che facciamo tutti.
Le due, l’ora della mancanza: ha a che fare con la fame? No, non credo, perché non ne ho.
Credo sia più una questione di spazi, di vuoti e pieni che con la luce vedi meglio, così chiari, così tranquilli, sembra semplice dire la verità davanti a loro.
I “dove sei ” che si rincorrono su schermi dove il sole batte e non vedi più quello che scrivi ma i tuoi occhi nel farlo: hai ancora la fiducia necessaria per fare domande, per leggere le risposte alzandoti a cercare ombra e campo.
Sono a Lisbona.
Sono in Salento.
Sono su una spiaggia qualunque come te.
Sono a casa.
Mi sto riempiendo gli occhi di azzurro, come scorta.
Ci sono 40 gradi.
Piove.
Sotto l’ombrellone una ragazza piange che le si è sciolto il trucco e nessuno le chiede perché, a chi doveva sembrar più bella di quanto già è. Aline Ohanesian rincorre Dorit Rabinyan sulle pagine de La Lettura, scritture così belle da farti piangere un po’ ma puoi dire: è il mare, è il vento e comunque, dove mangiamo stasera, cosa?
Hai un vestito che a casa non metteresti mai, i capelli e i piedi liberi e questo basta, ma te ne accorgi solo dopo un po’.
Prima ci sono i sentieri dove ti avventuri solo per il gusto di scoprire cosa c’è oltre, “visto che hai il tempo”, “visto che non hai altro da fare”, “visto che si può”.

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I tramonti, quando arrivano, lo fanno di sorpresa prendendoti alle spalle: ma poi dov’è ancora giorno, dove è già notte, con la luna bianca e una stella, una sola, lo capisci subito, è così chiaro.
Sai distinguere le costellazioni, da qui, sapere dove cadranno le perseidi e puoi vederne una e poi un’altra, ma solo quando non stai lì a cercarle, stelle cadenti come la maggior parte delle cose.
Ragazzini dall’età poco definibile – dieci o quindici?, otto o dodici? – saltano davanti a te cantando: “non mi fumo canne, sono anche astemio” e ti verrebbe da chiedere: “allora che giustificazione avete, cari?”, ma è già tardi e fa già troppo fresco.
Sei sul letto di una casa che tra poco lascerai, una casa strana che ti ha fatto simpatia da subito, ridere da subito, tutta colorata, come da insegnamenti dell’arte greca, come scriveva Ghiannis Ritsos: “sempre il blu di fianco al quotidiano”.
Sorridi allo specchio che per 15 giorni ti ha rimandato una faccia che conosci, la tua, ma mano a mano sempre più calma, sempre più rossa: ora ti manda immagini di pace che non credevi mentre il vento fa muovere i lampadari sulla tua testa, leggeri che seppure cadessero ci sarebbe da ridere più che da preoccuparsi.
I Tiromancino che avresti cambiato stazione subito fino all’altro ieri adesso cantano i “Piccoli miracoli” di cui sei testimone e “scegliere l’amore che ti fa sorridere” sembra ovvio e semplice.
Con le valigie svuotate e tornate piene (-“Cosa c’hai messo qui dentro?” -“La mia rabbia, come diceva Lino Banfi”), tra poco tornerai.
Per questo, se sei in vacanza, goditela.

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