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Pino Daniele e i giovani degli anni Ottanta a Napoli. Grazie. Assaje.

Che essere giovani negli anni Ottanta a Napoli doveva essere un serio rischio e una vera rottura di cazzo, ma c’era Pino Daniele, Massimo Troisi e tutti questi artisti meravigliosi a lavorare assieme senza dire palle stratosferiche sulla città.

Confesso. Sono affetta da romanticismo storico. O è solo che il passato ha il suo fascino e io non ne sono immune. Ma oggi che sono due anni senza Pino Daniele e senza che ‘na jurnata e sole basti a ripianare le cose, mi pare quasi normale. Infatti piove.

Qualche sera fa, dopo un po’ troppo Biancolella di Ischia, con alcuni amici ci chiedevamo quale sarebbe stato il miglior momento per essere giovani in questa città. Per ogni epoca avevamo pro e contro.

Gli anni Ottanta hanno stravinto. Per la musica, per il cinema. Per Pino Daniele, per Massimo Troisi. 

Certo, essere ragazzi allora aveva i suoi grandi problemi: i giovani morti per droga in Italia erano 208 nel 1980, 239 l’anno successivo al punto che Pansa, in un articolo per Epoca, titolo “Il Ventenne modello ’84”, scriveva: «Hai corso davvero un bel rischio, figlio mio che compi vent’anni». A Napoli la situazione era anche peggio: basti pensare che mentre io nascevo, nel gennaio 1983, Eduardo De Filippo visitava la redazione del Mattino e ad un tipografo che gli urlava «Maestro, adda passà ‘a nuttata», rispose: «Guagliò, qua adda passà ‘a jurnata. Vorrei sapere perché una sola generazione deve pagare sulla sua pelle gli errori e i ritardi da Crispi ad oggi». Sempre il Mattino, qualche mese dopo, scriveva: «10 ragazzi uccisi dall’eroina in 90 giorni. Il dramma di 30mila tossicodipendenti si consuma nell’immobilismo».

A Napoli moriva Ettore, 25 anni, trovato sotto un portico del chiostro di S. Anna dei Lombardi stretto in un sacco a pelo e restato per molti giorni senza nome. A Napoli il suicidio diventava per molti l’unica soluzione possibile. Quando si uccise un ventottenne di Secondigliano, ricaduto nel giro dopo la disintossicazione in Svizzera, i suoi familiari fecero scrivere sui manifesti «Pasquale si è tolto la vita per non drogarsi più».

Insomma, tra droga, disoccupazione a tassi altissimi, dismissione, criminalità e cataclismi come il terremoto e il colera, quelli che erano i giovani napoletani all’epoca forse non sapevano manco da quale parte voltarsi. Oppure sì.

Io immagino che quelli che ne sono in qualche modo usciti bene, quelli che ce l’hanno fatta anche se magari non se lo ricordano più ché il passare del tempo ha cambiato i termini di paragone, sono quelli che hanno trovato Pino Daniele. Non voglio ragionare in maniera semplicistica, ma, la mia convinzione è che proprio negli opachi anni Ottanta napoletani, gli anni del terremoto e delle fabbriche, della segregazione urbanistica, dei viceré, della droga, della crisi delle amministrazioni di sinistra e del pentapartito, della Nuova Camorra Organizzata, siano nati gli ultimi modelli narrativi e culturali buoni su questa città, importanti sia rispetto sia alla determinazione dell’immaginario collettivo che alla costruzione della coscienza civile dell’epoca e odierna.

Prendete le maleparole di Pino, dette non per colore ma per rabbia, prendete la sua insofferenza del sentirsi propinare ancora una volta ‘na tazzulella ‘e cafè invece di una mano concreta, prendete la Napoli carta sporca che nessuno conosce davvero o la storia di una transessuale e quella di una prostituta. Prendete tutte le paure di un popolo che cammina sott’’o muro, strette nel tuppo dei capelli neri di Donna Cuncetta, ecco: non sono una gran mano a trent’anni, quando  nun può capì e pure ‘e canzone te fanno fesso?

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Pino cantava una generazione intera, una città intera, senza alcuna distinzione di classe o quartieri. Dava voce alla paura di restare con gli occhi fissi sulle parole e sui palazzi vecchi, all’ansia maledetta di non ricordarsi più “si stevem’ bbuone cu’ ll’addore d”o cafè pe’ tutt’a casa”Diceva di chi si era rotto degli accomodamenti del potere e rispondeva con la pazzia di essersi “scassato ‘o cazz” . E più di tutto, a far grande lui e piccoli noi oggi, aveva la capacità di mettere in musica e, dunque, contribuire a diffondere, l’assenza di pregiudizi e di barriere. Non conosceva ostacoli neppure nella commistione dei linguaggi – a suo agio tra napoletano, italiano e inglese – e prima ancora, a 18 anni, componeva Napul’è, manifesto suo, della città e, durante uno dei periodi più neri – l’emergenza rifiuti del 2008 – di una possibile rinascita, per quanto non mancarono le polemiche (Pino Daniele appoggiò, infatti, l’iniziativa “Napoli non è una carta sporca” dell’allora ministro Stefania Prestigiacomo). Grazie a lui, anche chi non ne aveva il tempo e l’occasione, conosceva Fortunato che urla perché “tene ‘a rrobba bella”. E i mestieri più poveri e miseri, quelli di chi fatica a sera e chi fa ‘e cartune, trovavano dignità nella poesia. Anna arrivava davvero e ti insegnava che impegnarti in qualcosa è un modo per non essere più soli. E prima ancora che le tematiche LGBT avessero la giusta importanza, dal 1979, è Pino Daniele ad averci detto del  Buono Guaglione con un solo desiderio: chiamarsi Teresa.

E poi c’erano le collaborazioni.

C’era Massimo Troisi, Massimo Troisi da San Giorgio a Cremano.

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C’era Assaje, testo e musica di Pino, arrangiamenti di Tullio De Piscopo, voce di Lina Sastri, colonna sonora del film ”Mi manda Picone” di Nanni Loy, una commedia nerissima su una Napoli in cui tra criminali, camorristi e poveri cristi un operaio vestito della tuta blu dell’Italsider si dà fuoco (apparentemente) nella Sala dei Baroni, storica sede del Consiglio comunale di Napoli.

Insomma, non che oggi manchino gli artisti napoletani e/o le produzioni su Napoli, eh. Ma secondo me era più semplice, all’epoca, trovare in loro dei rinforzi positivi, umani e un po’ di sincerità, comprensibile ai più, non importa quanti anni hai e da quale classe sociale ti affacci al mondo.

Noi che Pino Daniele lo abbiamo imparato dai grandi quando ci voleva poco ad esser grandi sul serio (tipo 20 anni e il sorriso appena appena sicuro, l’aria appena appena strafottente) non possiamo sapere com’era averlo ragazzo, giovane uomo e artista che si sta facendo conoscere insieme ad altri come lui. Ma se non aspettiamo più che piova per conoscere la vita di una prostituta e sentirla messa in fila accanto alla nostra tanto l’aria s’adda cagna’, se sappiamo che ce sta chi ce penza mentre nuje jettammo ‘o sang’ dint’’e quartieri ‘a Sanità, che a chi ci dice umanità rispondiamo “ammore ammore ammore, che abbiamo avuto risposta persino a quel Quando, dovremmo ringraziarli, quei giovani degli anni Ottanta a Napoli.

Per 3 cose, essenzialmente:

  1. Esserne usciti vivi

  2. Ricordarselo ancora

  3. Averci passato Pino Daniele

È grazie a loro se oggi, diciamo, citandolo “puteva campa’ n’ato anno”. È grazie a loro che sappiamo che“chi è vivo è vivo, chi è muorto, è muorto”

Se sei in vacanza goditela. Perché tornerai.

Vacanze come vuoto da riempire.

Di sveglie al mattino presto che non suonano, basta la luce che entra dalla finestra sul letto, bastano le biciclette (quelle elettriche fanno il loro modesto rumore, tipo auto da corsa)
Di colazioni lente, una macchinetta del caffè che continua a sporcare tutto, anche lei fuori dai ranghi, anche lei in ferie d’agosto, puoi stringerla quanto vuoi (riusciremo a capirci solo al penultimo giorno di vacanza, e comunque non mi fiderò di lei per l’ultimo caffé prima della partenza, sia mai che sporchi tutto di nuovo)
Di mare che decidi dall’alto del belvedere quale sarà il tuo posto, da un lato o dall’altro, oltre gli scogli o prima, in una geografia della tranquillità che durerà due ore appena, prima che qualcuno decida di stendere il suo telo proprio accanto a te (e la sfida sarà non chiedere il perché, diamine, con una spiaggia intera).
Di acqua fredda e pulita che tanto vale tuffarsi subito, stare lì sulla riva ad acclimatarti è un fatto di vergogna e di pescetti che ti nuotano tra i piedi facendoti il solletico.
Di tuffi semplici, di barche troppo vicine, di materassini gonfiabili e ombrelloni gialli di carta che il vento non riesce a portare via (ora abbiamo una specie di diplomino, “piazzatori di ombrelloni che non si muovono e non volano contro la roccia ad ogni folata”).
Di Murakami che è tornato ad essere il tuo migliore amico, quello con cui parli di niente e sembra importantissimo ogni volta.
Di giornali di casa tua che adesso sembra lontanissima, le notizie sono monumenti di cui conoscevi tutti gli angoli ma solo ora le guardi per bene e sai già tutti gli spigoli in cui altri ancora si impigliano, per forza o per piacere.
Di borse frigo, di panini e salumieri che hanno ancora la cortesia di far passare i bambini dietro il bancone per regalargli un pezzo di mozzarella o una fetta di prosciutto, così non si guastano l’appetito con una merendina (una cosa così non la vedevo da quando l’infante che scavalca la fila e va a prendersi un pezzetto di qualcosa non ero io).
Di fruttivendoli dal nome simpatico – Silverio è il mio – che hanno peperoncini fortissimi, origano di produzione propria, meloni sempre buoni, ottimo vino bianco fatto in casa e se chiedi un po’ di basilico ne puoi ricevere una busta intera, buona per una caprese ma anche per far profumare tutta casa.
Di limoni dolci al punto che mangiarsene uno è un piacere.
Di pranzi fatti con circospezione perché sennò arrivano le formiche (credo avessero carpito il nostro orario, sennò non si spiega).
Di raccolte differenziate fatte con piglio, dai, è semplice (per poi tornare a casa e chiedere: perché non la facciamo anche qui? e sentirsi rispondere: eh, in quali cassonetti?).
Di sonni pomeridiani al fresco sotto l’occhio vigile di Topolino e Paperino e Pippo, disegnati sulla parete della casa che hai preso in fitto che se ad altri farebbe piacere restare adulti anche a mare, a te no, a noi no: noi siamo bambini, davanti al mare.
Di lenzuola fresche, di vento e di pelle che tira un po’ per il sale ma che ti importa? C’è una bottiglia riempita d’acqua e messa al sole a riscaldare, c’è una doccia più consona da fare ogni volta che vuoi.
Di radio accese sulle canzoni che non avresti mai ascoltato, anzi, tollerato.
Ora suonano e capisci che il problema non è la musica, non è il testo ma il ritornello. Come si fa a “vivere a colori” se Alessandra Amoroso dice che non c’è un segreto per farlo? Lo si fa e basta, mandando “all’aria tutti i nostri piani, riavviciniamo i sogni più lontani“. Una sua amica di compilation estiva le fa da coro greco, e non sai come si chiama ma canta: “la vita che cos’è? un abbraccio al sole” e c’ha ragione, vorrei dire, anche quando canta “non saremo mai distanti e non cercheremo mai di tradire i nostri sensi” che poi in realtà e proprio quello che facciamo tutti.
Le due, l’ora della mancanza: ha a che fare con la fame? No, non credo, perché non ne ho.
Credo sia più una questione di spazi, di vuoti e pieni che con la luce vedi meglio, così chiari, così tranquilli, sembra semplice dire la verità davanti a loro.
I “dove sei ” che si rincorrono su schermi dove il sole batte e non vedi più quello che scrivi ma i tuoi occhi nel farlo: hai ancora la fiducia necessaria per fare domande, per leggere le risposte alzandoti a cercare ombra e campo.
Sono a Lisbona.
Sono in Salento.
Sono su una spiaggia qualunque come te.
Sono a casa.
Mi sto riempiendo gli occhi di azzurro, come scorta.
Ci sono 40 gradi.
Piove.
Sotto l’ombrellone una ragazza piange che le si è sciolto il trucco e nessuno le chiede perché, a chi doveva sembrar più bella di quanto già è. Aline Ohanesian rincorre Dorit Rabinyan sulle pagine de La Lettura, scritture così belle da farti piangere un po’ ma puoi dire: è il mare, è il vento e comunque, dove mangiamo stasera, cosa?
Hai un vestito che a casa non metteresti mai, i capelli e i piedi liberi e questo basta, ma te ne accorgi solo dopo un po’.
Prima ci sono i sentieri dove ti avventuri solo per il gusto di scoprire cosa c’è oltre, “visto che hai il tempo”, “visto che non hai altro da fare”, “visto che si può”.

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I tramonti, quando arrivano, lo fanno di sorpresa prendendoti alle spalle: ma poi dov’è ancora giorno, dove è già notte, con la luna bianca e una stella, una sola, lo capisci subito, è così chiaro.
Sai distinguere le costellazioni, da qui, sapere dove cadranno le perseidi e puoi vederne una e poi un’altra, ma solo quando non stai lì a cercarle, stelle cadenti come la maggior parte delle cose.
Ragazzini dall’età poco definibile – dieci o quindici?, otto o dodici? – saltano davanti a te cantando: “non mi fumo canne, sono anche astemio” e ti verrebbe da chiedere: “allora che giustificazione avete, cari?”, ma è già tardi e fa già troppo fresco.
Sei sul letto di una casa che tra poco lascerai, una casa strana che ti ha fatto simpatia da subito, ridere da subito, tutta colorata, come da insegnamenti dell’arte greca, come scriveva Ghiannis Ritsos: “sempre il blu di fianco al quotidiano”.
Sorridi allo specchio che per 15 giorni ti ha rimandato una faccia che conosci, la tua, ma mano a mano sempre più calma, sempre più rossa: ora ti manda immagini di pace che non credevi mentre il vento fa muovere i lampadari sulla tua testa, leggeri che seppure cadessero ci sarebbe da ridere più che da preoccuparsi.
I Tiromancino che avresti cambiato stazione subito fino all’altro ieri adesso cantano i “Piccoli miracoli” di cui sei testimone e “scegliere l’amore che ti fa sorridere” sembra ovvio e semplice.
Con le valigie svuotate e tornate piene (-“Cosa c’hai messo qui dentro?” -“La mia rabbia, come diceva Lino Banfi”), tra poco tornerai.
Per questo, se sei in vacanza, goditela.

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Così vanno le cose, così devono andare
Il post leggero sul fatto che fa troppo caldo per lottare contro l’evidenza dei fatti

Un mio capo, uno dei tanti avuti nel corso della mia vita professionale, diceva: “Ciò che non avviene, non conviene”.
Di solito lo diceva dopo aver rotto il cazzo per ore, che dico, giorni, con una richiesta pressoché impossibile. Cioè: lo diceva quando, dopo averti dato blandamente dell’incapace, cercava di risolvere il problema da solo, finendo con l’accorgersi che manco lui era in grado di combinare qualcosa.  Adesso, non è che me ne voglio uscire, oggi, 6 di agosto, con un paragone tra un pazzo (e una redazione di pazzi) che smadonna perché tal dei tali ci ha annullato l’intervista, l’unica esterna è possibile alle 14 o alle 18 di un giorno in cui il cameraman comunque non ci sta, però quel giorno sta pure la superconferenza stampa da seguire, e comunque questo chi cazzo si crede di essere, e la vita, però. 

Però le evidenze non mancano. Io non so se ci si arrende alle cose che capitano o se, semplicemente, succede che le cose che capitano ad un certo punto non ti interessano più (è infatti da tenere nel giusto conto la possibilità che il mio ex capo non fosse un monaco buddista ma solo un uomo con poca pazienza) ma c’è da dire che frasi come “vabbé, che possiamo farci” o anche “passerà pure questa” non mi sembrano più sconvenienti (soprattutto se accompagnate da un Mojito). È una grande vittoria, non pensate! Io sono stata orgogliosamente capatosta, capace di mettersi a litigare su questioni di principio anche coi testimoni di Geova, per 29 anni della mia vita! E poi eccomi qui oggi, a dire al telefono che “Tesoro, ciò che non avviene, non conviene”. 

(Non è che vi sto consigliando di smettere di tenere a ciò che avete di più caro, se quello che avete di più caro è fonte di stress costante: è che non credo ci sia da ricamarci su più di tanto, da avere rimorsi o rimpianti, o dolori o amarezze, c’è troppo sole, fa troppo caldo e l’offerta di Mojitos nei bar è alle stelle. La nostalgia, per favore, tenetevela come un’amica da andare a trovare ogni tanto, quando non avete molto da fare,  e potete star a sentire le cose che vi dice senza drammoni: non è lei che può spiegarvi  perché le cose sono andate così, come dovevano, come potevano. Nel caso posso darvi il numero del mio ex capo, ma non ve lo consiglio). 

In ogni caso, come prontuario, per le cose che volevate dire e non avete detto, per le persone che poi magari ci sarebbero restate male, sempre se avessero capito,  per il mare che volevate vedere, i vestiti che volevate mettere, le canzoni preferite cantate per chi se ne è andato e che poi non si sono cantate più. Per le sicurezze di oggi, le tranquillità attuali, la forza, la fantasia (quella di non credere poi, che le persone restino sempre uguali. E che alcuni se ne vanno anche quando restano, che le cose ci sono e poi puff, ma spiegarlo è difficile e comunque, che importanza ha, basta guardarsi un secondo allo specchio, nel riflesso, per caso e sapere che è un trucco del tempo): quietami i pensieri e le mani, in questa veglia, pacificami il cuore, così vanno le cose, così devono andare.