AutoreRaffaella R. Ferrè

Raffaella R. Ferrè, giornalista e scrittrice, è nata ad Eboli nel 1983.

10 cose da sapere sul Salone del Libro di Torino (e che nessuno ti ha mai detto)

La prima volta c’erano vento e metropolitane da aspettare in due e prendere uno alla volta. La prima volta il paese ospite era l’India. La prima volta io ero così:

L’ultima, l’ultima invece Torino aveva le braccia scoperte al sole, e viali lunghi di vetrine pulite, e me sola su questi viali odorosi di vetril a cercare un tabacchi una ricarica telefonica un posto all’ombra. Avevo fatto il viaggio di andata in compagnia dell’associazione italiana arbitri (e con loro avrei fatto anche il ritorno, sì, e al ritorno ridevano assai). Prima di arrivare al Salone decisi per l’esperimento di aggiustarmi la bocca, in modo che potessi sempre collegare il fatto di essere sola al gusto della torta gianduia della pasticceria Peyrano.
Da qui in poi andò tutto liscio e il libro che presentavo  m’arrivava alla vita:

Ma adesso basta con la nostalgia e parliamo di cose serie. Io a Torino quest’anno non ce l’ho fatta ad esserci, rimando al prossimo. Però un paio di cose le ho imparate, dalla mia prima all’ultima volta, ed ecco: ne faccio dono.

Salone Internazionale del Libro di Torino
I consigli dell’autrice che mi dicono si porta

  1. Il biglietto per entrare al Salone. Ecco, io questa cosa qua ho una difficoltà imbarazzante a capirla, anche quando sono stata autrice con libro in presentazione: non è che non voglio pagarlo, no, ma è che costa quanto un libro e il Salone dovrebbe mirare a vender quelli, no?
  2. Passi le prime quattro ore intontito dalla quantità imbarazzante di libri che cominci a chiederti se il libro, come unità a sé, esiste ancora;
  3. Quando ti convinci che sì, anche nel marasma saprai riconoscere il libro giusto, e infine lo trovi, ti accorgi che non c’è un posto, uno, dove sedersi a leggerlo. Ecco, un consiglio: mettete un paio di panchine, oppure, lasciateci un paio di quei bellissimi pouf dell’area bambini;
  4. I microfoni non funzionano sempre;
  5. E c’è da dire che non è bello fermarsi ad uno stand per chiedere indicazioni per un altro stand;
  6. Così come non è bello tirarsi una questione immane sui libri che non si vendono, non si comprano, la crisi, e alla domanda: tu cosa hai comprato? Rispondere, beh, niente, non c’è nulla che attiri la mia attenzione ( che vorrei dire: al Salone stanno all’incirca mille espositori, ogni espositore avrà, a giocare molto al ribasso, 5 titoli, no? Quindi tu mi stai dicendo che su 5mila libri non hai trovato uno, uno dico, che ti facesse dire, ah  beh? Uao, complimenti, si chiama Nirvana);
  7. E non è bello nemmeno dire male malissimo di tutto lo scibile umano che ruota attorno quando fai parte dello scibile umano che ruota attorno;
  8. Alle feste si balla Britney Spears;
  9. A Salone si fanno molti inciuci, inciuci che non hanno senso una volta usciti dal Salone;
  10. La mappa del posto è sempre la stessa (a cambiare al massimo sono gli espositori) ma se non volete continuare a perdervi, dovete guardarla.

Il resto della tigre – Racconto

Molti anni fa è successa una cosa per cui si è sempre detto:  mi ricordo che. Ma se il tempo si confonde è forse colpa del caldo, il trucco di tenere le cose vicino agli occhi mi riesce ancora: per questo tengo il passato nelle dita di una mano chiuse a pugno e nell’altra, ben aperta, le cinque soluzioni. Metterle in pratica resta una difficoltà, ma tant’è.

Questo è un modo: raccontarlo.
Questa è una storia: quella di Irene.
Che poi è la mia, ma alle volte funziona meglio darsi un altro nome, tra quelli che ti piacciono. 

La stanza di Irene affacciava sul bancone della frutta e dal bancone della frutta tutti potevano sentire le canzoni della sua radio. Quelli che venivano a trovarla dicevano: cazzo, sembra abiti qui da sempre, cazzo! e Irene un po’ si sentiva felice di saper nascondere le cose così bene, perché Irene lì ci era arrivata due mesi prima, era uscita dall’anestesia e aveva traslocato, le pareva non potesse essere uscita veramente dall’etere medico senza caricare le sue cose sopra una opel corsa e portarle a 120km dall’ospedale.

Aveva ancora gli incubi. La notte si svegliava e non si ricordava dove cazzo stava, prima di accendere la luce passava minuti di vuoto nero e mentre spingeva avanti le mani per toccare il comodino rimpiangeva pure il reparto dove l’avevano sbattuta. La mattina che le avevano spiegato tutto, quella in cui era arrivata in corsia d’urgenza, sembrava lontanissima così come i rischi, i movimenti che non avrebbe potuto più compiere, la parte del corpo che le conveniva impararsi a memoria, toccare e carezzare per bene, che poi non avrebbe potuto sentire più niente, manco una puntura d’ago. L’unica cosa che non le avevano detto quel giorno era che il suo letto stava in geriatria, affianco ad una vecchia che aveva una cucitura lunga che cominciava sotto al collo e finiva in mezzo alle cosce. La vecchia aveva il catetere e stava tutto il tempo ad indicarsi il basso ventre e gridare: levateme stu coso aint’a natura, toglietemi questa roba dalla natura. 

La natura di Irene invece, tra le cosce e pure fuori, sapeva di diana azzurre che finivano sempre troppo presto, specialmente la sera. Dalla finestra della cucina ad uso delle famiglie si vedevano le luci di Capodichino, Irene stava là a parlare agli aerei: cadi cadi cadi non cadere cadi. Il figlio della signora allora le chiedeva: stai bene? Sì, diceva lei. Hai una sigaretta? Lui allungava una camel. Il figlio della signora teneva una camicia molto divertente, Irene se la sognava pure di notte: era blu elettrico, maculata di nero. Sul davanti stava disegnata la faccia di una tigre gialla predatrice che faceva un certo contrasto con la faccia dell’uomo, una faccia ridente, piena di pieghe e di abbronzatura presa lontano dalle spiagge, coi buchi dell’acne curata male che dicevano: sono inoffensivo. Poi l’uomo si girava di spalle e Irene poteva guardare il retro della tigre, perché sulla schiena la camicia portava disegnata anche le zampe posteriori e la coda: l’uomo era stato trafitto dall’animale esotico che adesso gli viveva in petto, premuroso e attento a non graffiargli gli organi interni.

Irene aveva ammaccato l’opel corsa tirando la brandina, il fidanzato l’aveva cazziata forte. Aveva sistemato gli specchi e le fotografie, i libri necessari alla sua sopravvivenza, gli omogeneizzati per quando aveva fame. Chi veniva a trovarla diceva che bella casa, che bella stanza, sembra tu viva qui da sempre, perché non ridi più, perché non ridi, devi essere più sicura, voglio vedere l’Irene di prima, è tornato tutto come prima, è tutto finito, hai rotto il cazzo tu e il trasloco, tu e l’università, tu e quel tizio, tu e gli amici e adesso? Adesso andiamo a ballare, dicevano, adesso andiamo a mangiare la pizza, adesso andiamo al concerto, adesso gli dico a quel ragazzo che tu te lo vuoi fare, adesso dico a quel ragazzo che lui ti deve fare, che ne pensi, che ne dici, perché non ridi? Irene rispondeva poco, sempre con brevi frasi circostanziate. Cominciava a dire una cosa, una cosa semplice come la spiegazione tecnica del perché non riusciva a ridere per bene e a stirare le guance piene ma sul tessuto delle parole che doveva dire si innestava un pensiero nuovo, la sua attenzione si preattivava su un comando mandato diretto dall’anima sua. Il resto della tigre era così difficile da spiegare.

Ci aveva provato a raccontarla, la storia della natura e della camicia del figlio della signora che le era morta affianco in piena estate mentre tutti erano al mare, ma gli amici avevano riso, l’avevano presa per una battuta dell’Irene di prima e s’erano confortati e lei, lei non aveva avuto la voglia di dire più niente. Che bella casa – dicevano, e lei si contentava – che bella stanza Irene, complimenti. Lei un po’ ci credeva e un po’ aspettava. E siccome non sapeva più da che parte guardare, guardava le pareti, le foto, i libri e il bancone della frutta, fingendo di scegliere da lì cosa mangiare, non oggi, non domani, ma presto, sì.

Voler bene a Paola Turci ( come ne vorremo un giorno a noi stesse)

Ho sempre creduto che Paola Turci fosse stata troppo e ingiustamente sottovalutata e che non le fosse stato riconosciuto il giusto e sacrosanto merito. Poi Paola è andata – meglio, è tornata – a Sanremo e ha fatto come fanno sempre le donne quando non c’hanno tempo da perdere: ha messo un po’ in ordine le cose, e via. E io l’ho adorata come al solito, più del solito.

(in foto, Paola che ristabilisce l’ordine delle cose)

Da quel momento ho scoperto tantissimi altri – in alcuni casi insospettabili – innamorati come me di questa forza della natura. È come se lei stessa c’avesse dato il permesso di venir fuori. Voglio ben dire: Paola Turci ha tutto. Ha la rabbia, la dolcezza, il rock, la storia, la voce, la musica, il modo, il portamento. Ha la forza.

E oggi  viene a Napoli a presentare “Il Secondo Cuore”. E siccome qui non ci facciamo mancare niente, deve vedersela con Napoli-Juventus, il ritorno.

(Sì, lo so che la presentazione del disco è alle 6 e la partita non comincia prima delle 9 meno un quarto, ma in questa città vige una sorta di coprifuoco preparatorio ai grandi incontri che prende 2 ore minimo: quelle di impazzimento mentre esci da lavoro/tenti di far la spesa/rinunci e ordini una pizza/cerchi un modo per tornare a casa mentre ci provano anche tutti gli altri/ci torni davvero e chiudi la porta su una città che sembra in preda ad una crisi isterica che culminerà in un religioso, dormiente silenzio. Se va tutto bene, sarà interrotto da un paio di urla spaccatimpani e dal citofono della consegna a domicilio. Se va male non lo dico neppure. Vi basti sapere che potrebbe anche succedere che la pizza, il ragazzo delle consegne, il pizzaiolo, si sperdano per la via anche se dal negozio a casa mia stanno sì e no 200 metri)

Di seguito, però, una dichiarazione: partita o meno, oggi dovremmo andare tutti e tutte a stringere la mano a questa donna. E io lo farò.

Perché bisogna voler bene a Paola Turci come ne vorremo un giorno a noi stesse. Bisogna voler bene alla sua voce, non solo quando canta. Bisogna voler bene alle sue parole, non solo quando sono in una canzone. Bisogna voler bene alla sua faccia, adesso e prima – c’è un adesso e un prima ma solo per il tempo, sì – come alla nostra, perché ci ricorda cose che altrimenti perderemmo. Cose che altrimenti non sapremmo manco più. Tipo che ciò che accade è come luce sulla pagina di un libro: ne può rendere accecante una metà, troppo scura l’altra. Tipo che la storia scritta su quelle pagine non cambia o si ferma per questo. Che la storia va avanti e prosegue nonostante questo. Che luce ed ombra passano entrambe e che scrivere – e cantare – è un modo per vivere, uno dei tantissimi possibili.

Io gliene voglio già: un gigantesco “forza” per ogni santa volta che l’ho vista in tv o l’ho ascoltata in radio o ne ho cantato una canzone e poi un’altra e poi un’altra ancora, tipo ciliege, tipo ieri e ieri c’è stato un momento in cui non volevo sentire nemmeno mia mamma. Sono orgogliosa di lei, ma non orgogliosa e basta, no: proprio quella cosa che tu pensi, di una donna come te, che è bellissima, che è una potenza, che c’ha la forza di una che si è detta da sola le cose peggiori, ha avuto le paure più terribili che si possano avere, e poi si è detta: beh, vuoi aggiungere qualcos’altro?

Quando una donna c’ha questo tipo di spirito o di ironia, come fai a non fare il tifo per lei. A non vedere la grandissima guerra combattuta ogni giorno per non diventare una povera stronza (tante di noi lo diventano, non se ne accorgono neppure, dico davvero). A non dirle: oh, grazie, seriamente, per non aver mollato. O per aver sempre ripreso.

Ecco, io non so se queste cose riuscirò a dirgliele davvero oggi che ce l’avrò vicina in linea d’aria. Spero di sì. Però intanto, intanto, ascolto lei e la lascio ascoltare anche a voi, in una playlist piccolissima ma che è quella che mi ripiglia ogni volta e magari ripiglia anche voi.

  • L’uomo di ieri. Questa è una canzone del 1986, la sua prima incisione discografica e il modo in cui guardo io a certi uomini – in questo periodo ad uno in particolare -. Comunque: “Era un uomo così, ma con delle possibilità. Lo so io” non è la frase riassuntiva per ogni ex che meriti il titolo?
  • BambiniNon ve lo devo dire io, no. Ma questa canzone potrebbe esser uscita ieri pomeriggio, più o meno quando abbiamo cominciato a guardare le foto che arrivano dalla Siria. Nel video, Paola fa una cosa bellissima oltre ad essere se stessa: ribadisce chi c’è con lei a far quel miracolo sonoro. Le notazioni personali, in questo caso, sono due. La prima: ascoltare “Bambini” mentre sei una bambina ti fa sentire come se potessi tutto, tu, quella a cui la vita dice che non può niente; la seconda: è grazie a questa canzone se a 7 anni sapevo già chi fossero i desaparecidos.
  • Ringrazio Dio. Canzone consigliatissima se vi hanno mollato e vuoi vedere che hanno fatto una cosa buona? È la forza di una preghiera di cui non so scandire le parole, gettata contro i muri. E comunque: “al mio uomo che è fuggito via, nemmeno un po’ d’affetto!”.
  • Stato di calma apparente. Mettiamola così: se cresci sapendo benissimo di mostrarti fuori tosta come al solito mentre dentro ti senti una sorta di spettatrice di vite – la tua, quella degli altri – in “un continuo adattamento alle curve e al sentimento”, il tuo stato è proprio questo qui.
  • Ti amerò lo stesso. Per questa canzone ci sono due link: quello della prima versione ufficiale, quello di una privata in cui succede una cosa bellissima (lo capirete se guardate e crederete all’esistenza della bellezza). Personalmente, in mezzo ci sono io e c’è – anche in questo caso – un uomo. Una storia, se preferite non scomodare l’amore. “Ti amerò lo stesso” è, comunque, anche amare lo stesso se stessi “nonostante veda quanta vita facile, quanto amore docile precipita l’immagine della nostra storia, se ti sembra dura ed invincibile davvero”.
  • Io e Maria. L’ha scritta Carboni, se non ricordo male. E Paola, oh, vedi Paola, io non ho più voglia di farmi prendere il giro dalla primavera, soprattutto da quella di Napoli che è una piccola scostumata che entra senza bussare, ma a te aprirei la porta e ti farei un caffè senza chiederti niente, sperando che ad un certo punto sia tu a dire “dai, tiriamoci su, non vedi è primavera”.
  • Volo così. Il verso “E mi riprendo i sogni, le speranze, le illusioni e tutto quel che sai di me; io mi riprendo questo amore in tutte le versioni e ricomincio a vivere”. Il modo in cui è cantato questo verso – poiché cantare è ribadire una possibilità -. Niente, mo me la sento un’altra volta (ed è la terza da stamattina).
  • Quasi settembreAspetto la fine di agosto per questa, come una volta si aspettavano i temporaloni a segnalare che la fine delle vacanze era sì un fatto difficile, ma ne era tempo. Nel verso “e alla fine del viaggio arrivava il domani dentro un abito bianco come una sposa da sola verso l’altare” sono rintracciabili ragioni a supporto di varie cose che ho fatto, da sola, verso l’altare.
  • Attraversami il cuore. Sottoscrivo, firmo e dichiaro: “per uno che ci riesce, mille ci provano all’infinito”. E comunque: “io non so fino a dove ci porteranno i nostri sogni ma so che fino a quando ci parleranno d’amore, continueranno a fiorire stagioni” e questa è una delle poche cose di cui sono certa stamattina.
  • Per finire, senza dir niente in merito che è già tutto abbastanza chiaro, “Fatti bella per te”. Ci arriverò Paola, davvero: Napoli-Juve, amori e amorazzi, uomini di ieri e di oggi, bambini e voli, se provo a perdonare il tempo passato, ritrovarmi in una foto e ammettere di essere più bella, lo si deve anche al fatto che ci hai provato tu, prima di me. E ci sei riuscita. 

Baci e forza Paola, forza Napoli.

PS personale: una persona cara mi dice che dovrei scrivere di libri come scrivo di musica. E niente, ci arriveremo tra qualche settimana, quindi: stay tuned!