AutoreRaffaella R. Ferrè

Raffaella R. Ferrè, giornalista e scrittrice, è nata ad Eboli nel 1983.

Le 3 canzoni di Sanremo utili ai fini di un’edificante vita sentimentale

O anche, come mantenere la propria dignità, anzi, riabilitare la propria dignità, con una serie di riferimenti alla cultura popolare italiana e alle sue implicazioni sociali, una roba alla maniera di Bret Easton Ellis o di Marcel Proust , pronunciando solo ed esclusivamente una frase e cioè: “trottolino amoroso dududù dadadà” 

 

Posizione n.3 –  Fausto Leali e Anna Oxa, Ti lascerò, anno 1989 

“Ti lascerò” condensa in poco più di 4 minuti una serie di discorsi paranoici di coppia che di solito prendono dagli 8 ai 15 mesi se va tutto bene. Quando subdorate complicazioni sentimentali, dovreste prendere il tizio/la tizia a cui vi accompagnate ed esibirvi in questo duetto per velocizzare le cose. Dal Sanremo 1989 potreste imparare, inoltre, che un tempo Renato Pozzetto era un papabile conduttore che mollò all’ultimo a tutto e che venne rimpiazzato da giovanotti poco noti se non per il cognome, chiamati “figli d’arte”L’edizione all’epoca fu un flop a causa di tremila gaffes e lapsus; oggi farebbe il botto di ascolti proprio per quello.

Posizione n.2 – Mietta, Canzoni, anno di grazia 1989 pure lei 

Questa è una specie di misura di emergenza se non avete applicato la regola di cui sopra e nonostante le complicazioni sentimentali subdorate siete rimasti lì fermi a mordervi l’interno della guancia per non urlare mentre il tizio/la tizia a cui (forse, non sa, non risponde) vi accompagnavate fa finta di niente (tratto distintivo degli psicopatici). “Canzoni” è, in pratica, una sorta di mantra che andrebbe ripetuto davanti allo specchio prima di vedere lui/lei e mandarlo a quel paese dicendo: “taratatatatà”Molto spazio è lasciato anche all’autocommiserazione, quindi non preoccupatevi e ascoltate la cara Daniela Miglietta, molto credibile in qualità di rappresentante della trentenne che non si è ancora liberata del nomignolo adolescenziale e che siccome non ha capito ancora bene cosa vuole dalla vita nell’attesa concentra tutti i suoi sforzi nel chiedersi se è qui per piangere, ridere o farsi una foto (per poi dire di meeee, tra qualche tempo di meee).

Posizione n.1 – Amedeo Minghi e Mietta (di nuovo), Vattene Amore, anno 1990

Partiamo dalla coppia, formata dal maestro Minghi assurdamente somigliante al tizio di Ladyhawke e Mietta, decisamente più caruccia dell’anno prima, sul genere bellezza del sud costretta dalla moda e da un parrucchiere dal gusto opinabile ad avere due spalle da giocatore di rugby e la testa più ingellata di Fiorello ai tempi d’oro del Karaoke. Nonostante lui sembri un’aquila rapace e lei la copia a stampante a getto di Monica Bellucci prima di farsi le sopracciglia, la cosa funziona. E questa già è una grande cosa quando si parla di sentimenti, amore, vattene, resta, torna qui, non intendevo, non hai capito, ho capito tutto, capisco e da capo. Non siamo ai livelli scandalosamente maturi del “Ti lascerò“ di Anna Oxa e Fausto Leali, canzone alla quale si potrebbe praticamente rispondere con un “bene, se smetti anche di comportarti da stronzo siamo apposto” e nemmeno a quelli da emotivi anonimi di “Non amarmi” con tutto quel discutere, per mesi, del se Aleandro ponesse come conditio del suo non sentimento il vivere a Londra o all’ombra.

“Vattene amore”, pur inserendosi nella schiera delle canzoni sull’impraticabilità tecnica della cosa amorosa tra uomo e donna, non è una palla stratosferica fine a sé stessa che annuncia il perdurare dello stato amoroso al punto di lasciare l’altro per permettergli di fare le sue stronzate senza sensi di colpa né tantomeno pone l’innamoramento tra due esseri come abilitazione al volo mentre gli altri sono fermi, sola in questo cielo non lasciami. Il duo Minghi-Mietta, si prende poco più di 4 minuti per dire chiaramente che non sa cosa cazzo fare per risolvere la cosa.  Applausi.  

Il mirabile esempio è fornito sin nell’attacco del pezzo: quel “Vattene amore, che siamo ancora in tempo, credi di no? Spensierato, sei contento!” assomiglia molto al nostro “Tu tieni la capa a fare bene e qua stavamo scarsi” e lo sguardo di Mietta lo conferma. La paranoia andante del “perderemo il sonno, credi di no? I treni e qualche ombrello, pure il giornale leggeremo male” è più esaustiva di qualsiasi domanda sui forum di Alfemminile.it. Il fatto è che i due, tutti e due, non uno di più e l’altro di meno, esplicitano benissimo le complicanze di questa cosa chiamata relazione reciproca: un articolo di Repubblica del giugno 1990 ci conferma che la coppia aveva qualche difficoltà anche nella realtà fuori dalla canzone e la discussione pare sia andata avanti fino al 2008 circa.

Non gli volete bene solo per questa cosa di fornirsi il copione a vicenda? A parte il fatto che tutti quei maaaaaaaaaai e quei nooooooooi possono ricordarvi, alternativamente, Kate Bush in Wuthering Heights o vostra mamma dal balcone, sapete che leggere il nome dell’amato su un cartellone che fa della pubblicità sulla strada per me è un fatto riconosciuto dai linguisti con il nome di “preattivazione di un comando”? Il fatto che ci sia una canzone su tutto ciò mi fa sentire meno sola, per dire. Bisognerebbe poi dare il giusto spazio al “vattene”: la triplice possibilità di interpretazione  – ovvero  il vattene finto minaccioso scherzoso, il vattene vieni qua e il vattene vattene – dovrebbe fornirvi materiale abbastanza per preferire sempre una conversazione diretta con il vostro amato in luogo di sms, whataspp, email, messanger e via dicendo.

Vattene amore”, insomma, è una canzone bellissima ed esplicita anche un grande drammone sottinteso. Cos’è meglio sembrare, quando avete il cuore a pezzi? 

Storia di come e quando ho deciso di vivere a Napoli

Dice che la memoria certe volte funziona come una stampante (è una teoria, si chiama “Now Print”), così io dell’11 settembre di un altro anno, non ricordo solo dov’ero e cosa stavo facendo (compravo piccole assi di legno, vinavil e tempera, chiodi, grossi pezzi di iuta poco trattata, mi sistemavo in una stanzetta del chiostro dell’Accademia di Belle Arti) ma anche di un autobus che presi il giorno dopo e del fatto che salirci sopra ha deciso per me molto più di quel che poteva sembrare in quel momento. All’epoca io Napoli la conoscevo ancora pochissimo, erano ricordi di bambina che si affida a chi ne sa più di lei: sapevo i posti ma non come arrivarci, cercavo nei piedi della gente quelli di mio padre, sbagliavo spesso: angolo, traversa e anche fermate della metro.Non chiedevo mai informazioni perché ero più che taciturna: ero muta (lo so, chi mi conosce oggi non crederà alla diciottenne che ero, ma fidatevi: muta). Guardavo, cercavo di capire, magari seguivo qualcuno. E il 12 settembre 2001 io seguii dei ragazzi alla fermata del bus, quella di fronte alla stazione del Museo.

Avevano come me poco meno di vent’anni ma parevano spenderli meglio della sottoscritta. Ridevano, scherzavano. Aspettai, come facevano loro sotto la pensilina, con la cartellina di fogli di carta pane sotto il braccio, cartellina su cui avevo scritto, con la bomboletta, “You’d better watch out of what you wish for” da una canzone delle Hole (volevo molto essere Courtney Love, all’epoca, perdonatemi). Comunque, io stavo lì e alla comparsa di un autobus il cui numero identificativo e nomi dei posti in cui si sarebbe fermato non mi dissero assolutamente niente, feci come se fosse quello giusto: salii. Non so più dove dovevo andare (alla stazione per tornarmene a casa dei miei o al Rione Alto dove c’era la mia stanza presa in fitto?) ma persi di vista nella ressa i ragazzi di poco prima e spinta dalla folla mi sistemai sul davanti, quasi attaccata al gabbiotto dell’autista così, nel caso fossi stata costretta a parlare, l’avrei fatto a qualcuno che poteva rispondermi davvero. Accanto a me c’era pigiata una signora anziana: era vestita di nero, aveva un cencio di busta con dentro il latte, il pane.

Non mi ricordo quasi niente della sua faccia perché non potevo vederla, ma sentivo la sua voce, alta di un’ottava su quella di chiunque altro: svettava, concitata quasi fosse lei ad animare i vestiti e non il corpo. Parlava, in dialetto, di quanto aveva visto al telegiornale il giorno prima. L’attentato. Le torri che crollano. La gente che urla. La gente che muore. Al finire della sua esposizione a cui ormai assistevano decine di persone come ad uno spettacolo teatrale, fece una pausa drammatica. Poi, prima che il silenzio rotto solo dal rumore idraulico delle porte che si aprivano e chiudevano si facesse nero, si voltò e guardò me e altri come se cercasse qualcuno. E fece una domanda, una domanda a cui io risposi con una scelta. Chiese, scandendo bene le parole quasi volesse ripulirle dalla fretta chiacchiericcia di poco prima:

 “Ma io vulesse sapè una cosa, una sola: chisti CAP’I CAZZE che vann’ truvanno? Si ‘o sanno tutt’ quante che so CAP’I CAZZE, perché nun ‘o capiscono pure lloro?!”

I ragazzi che avevo perso di vista furono i primi a ridere, una risata che era come uno scoppio di fuochi d’artificio, ma nel giro di pochi secondi stava ridendo tutto l’autobus, qualcuno fino alle lacrime, tentando di spiegare alla signora che non si chiamavano CAP’ E CAZZ’ ma Kamikaze.
Io non risi, l’ho detto, ero muta. Ma decisi una cosa.
Decisi che forse non avrei continuato L’Accademia, forse non sarei rimasta nella mia stanzetta singola con un letto, una scrivania, una sedia e un armadio e fine, ma cazzo, io avrei vissuto a Napoli.

Proteggi questi tre ragazzi che noi abbiamo smesso

La prima volta che ho ascoltato i Thegiornalisti era la fine dell’estate, quella di tre anni fa, una replica, come tutte.

Ritorni dalle vacanze che lasciano strascichi di cose da sistemare, zaini e valigie e lavatrici e appuntamenti da riprendere come fosse la prima volta anche dal dentista che ti segue ormai da un anno, esaurendo in 3 giorni tutte le scorte di calma che hai fatto nelle due settimane di ferie, mare ogni volta che è possibile, andiamo la mattina e torniamo la sera. È semplice star calmi d’estate, fa troppo caldo per gli altri stati d’animo. E tra residui di sudate e niente di nuovo all’orizzonte, un amico mi passò un pezzo di Tommaso Paradiso & co.

«È la canzone definitiva», disse.
«Per cosa?» chiesi io che capisco sempre subito, ma faccio finta di no (è cortesia, è paura di sbagliarmi, è voglia di sbagliarmi).
L’amico replicò in fretta, prima che scegliessi tra le opzioni. «Per questo momento», disse. E aveva ragione.

Restare con la pelle e il cuore seccato sotto un sole che mo’ se ne va pure lui, ogni giorno sembra l’ultimo fino a data da destinarsi, insieme alle chiacchiere nei bar, le occhiate dentro ai bar e via dicendo, che mo’ non c’hai più neanche la scusa dell’aperitivo beneaugurante per il rientro. E alberi che mettono i fiori a ottobre, città che sembrano campagna, persino Torino. E domande serie, cose tipo: come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?, un quesito che adesso mi andrebbe di girare al suo stesso autore, ma va bene. Persino “Promiscuità” che più che parlare di un festino m’ha sempre ricordato di quella volta in cui, avevo 12 anni, scoprii il fratello maggiore della mia migliore amica di scuola a misurarsi protuberanze e ammennicoli con i suoi cugini, davanti ad un porno e scappai via urlando. Una volta ho vissuto l’esperienza mistica di camminare per una Napoli deserta, le due e mezzo di domenica pomeriggio, con “L’importanza del cielo” nelle cuffiette. Una volta ho sognato/sperato nell’esistenza di una versione di “Proteggi questo tuo ragazzo” al femminile. Certo è che me la sarei scelta come jingle se fossimo stati in un programma tv: alla mia comparsa sarebbe partito “Proteggimi perché io sono di quelli che se a calcio sbaglia il  primo pallone, butta via tutta la stagione e non si riprende più”.

L’intero “Fuoricampo” era da portarsi dietro come una giacca leggera, nel caso, anche se poi ci serviva solo in metropolitana nello spostamento d’aria dell’arrivo di un treno o in un supermercato con il condizionatore a palla. Autunno di primi raffreddori e primi cacamenti di cazzo, e noi come i Thegiornalisti, persi senza googlemaps, senza sapere cosa fare domani.

Noi alle canzoni dei Thegiornalisti gli volevamo bene: come capita per il personaggio di un romanzo, per una frase trovata in un libro o l’altro e che pare sia stata messa là per te. Ci pareva di essere capiti o qualcosa di molto simile. Di Tommaso eravamo andati a cercare tracce e parole fino a “Io non esisto” passando per “Luca lo stesso” di Carboni, per metterci in pari proprio come si fa di un amico che ogni volta che ti racconta un pezzo di passato ti fa un regalo che pagherai tu stesso con l’attenzione, il ricordo, la riconoscenza.

 Ascoltarli era un fatto di pochi intimi, ma non nel senso di numero: nel senso di approccio alla vita.

Due anni sono passati veloci tra date di concerti a cui non si riusciva ad andare mai se non all’ultimo, come fai per le birrette che forse vi raggiungo, poi vediamo. Ci andavamo, cantavamo, tornavamo. In auto, al ritorno, succedeva sempre la stessa cosa: mettevi su la radio, un paio di giri di frequenze fino al “Per un’ora d’amore con Su-ba-siio”, e poi tornavi a loro. Perché t’accorgevi che loro volevi sentire alle due di notte senza una meta, senza una strada, con gli occhi lucidi e la sigaretta, e chissà se quello stronzo/a ci ha perdonato. “Completamente (Sold out)” arrivò giusto in tempo per le crisi esistenziali ormai diversivi tra un periodo di superlavoro e l’altro. Al terzo ascolto di questa scrissi allo stesso amico di anni prima. Avevo l’influenza ed ero imbottita di tachipirina.

«Mi fa venire voglia di prendere una macchina che non ho e andare a farmi un giro lunghissimo. È normale? – chiesi – Ho la febbre alta». Lui disse di sì. Fece anche la faccina sorridente fino alle lacrime. E credo sia stato allora, con 39 e mezzo di temperatura, che me ne sono accorta, anche se non l’ho detto mica:

i Thegiornalisti erano per noi un’autorizzazione morale alla nostalgia. Ci pareva che ci dessero un diritto: quello di essere malinconici davanti alla fine non dell’estate, ma di una certa innocenza. Anche se avevamo già 30 anni, sì, perché una bici rossa Atala pedalata a piedi scalzi è un ricordo d’infanzia che abbiamo tutti e a quasi tutti fa male una cosa: il tizio o la tizia che ci stava sopra (di solito noi stessi). E stavolta, stavolta, non dovevamo ricorrere a vecchie canzoni già cantate da fratelli maggiori o amici più grandi, non dovevamo scomodare Lucio Dalla o Curreri o Carboni, nemmeno Baglioni. Stavolta avevamo la nostra di musicassetta.

Se è successo qualcosa, è successo mentre cambiavamo lato.

I Thegiornalisti hanno cominciato a diventare non più famosi, non più conosciuti, orecchiabili, mainstream, commerciali, ricalcanti qualcuno persino Grignani di certi Festivalbar con “Falco a metà” e “La mia storia tra le dita”, no: sono diventati… c’è un modo gentile di dire “cazzari”? Incoerenti? Incoerenti, ok. 

E Tommaso Paradiso l’unico giornalista che ha avuto bene di mia conoscenza. 

Ed ecco cosa accadrebbe se uno dei loro storici sostenitori potesse parlargli a tu per tu, in presa diretta:

–  Quand’è cominciato tutto questo, eh? Forse quando hai detto sì a Pamplona o era “Amici” di Maria De Filippi? La notizia che Tommaso Paradiso si occuperà della colonna sonora del prossimo cinepanettone,  puro pus underground, un cult movie! Quand’è che la pagina Tommaso Paradigma (ho sempre creduto che dietro ci fosse qualcuno che conosco) ha cominciato ad essere più vera dell’originale? È stato come per la V stagione di House of Cards: cosa vuoi inventarti quando c’hai già Donald Trump alla presidenza? La realtà non è che ha superato la fantasia: l’ha pigliata a mazzate! 

(qui la scena da cui la nostra mente ha tratto ispirazione).

Chiariamoci, io sono una che è nata negli anni Ottanta. Una che di mainstream ne ha fatto non scorta, ma proprio rivendita. Quando Manuel Agnelli ha detto che i nuovi gruppi musicali italiani gli ricordavano il peggior Venditti, ho pensato: sì Manuel, e ci piace. Come ci piacciono gli Afterhours di un tempo, come ci piacevi tu in versione scrittore di racconti ne “Il meraviglioso tubetto”, come ci piacevano i festival, le rassegne, come ci piace tutto quello che ci ricorda qualcos’altro. Anche tu ci ricordi qualcuno – gli avrei detto –  te stesso. Ma sarebbe suonato più cattivo di quanto in realtà sia questa cosa. E qui cattivi non solo non siamo, non ci teniamo manco a sembrarlo, no. Siamo sensibili. Parliamo poco. Ricordiamo tutto. E se i Thegiornalisti stanno perdendo uno zoccolo duro di fan – e non lavorano per lo zoccolo, è evidente, non sono Jep Gambardella – è proprio per questo: non li riconosciamo più.

Comprendiamo le esigenze di mercato, quella di godersela finché dura, quella di puntare sui duemila che i trentenni stanno con le scolle in fronte, va bene, va bene tutto. Ma “Riccione”.

Al Tommaso Paradiso che sapevamo noi cercare un’aquila reale sul mare di Riccione con addosso un giubbino rosso fuoco, gli avrebbe messo n’ansia atroce, altroché; ai Thegiornalisti che ci piacevano non sarebbe stato possibile paragonare i Trettrè di Beach on the Beach, a questi sì, ho scritto un giorno. L’amico, quello che per primo me li ha passati non l’ho sentito in merito, non c’è stato bisogno: ha messo like. E l’ironia di questa cosa è che l’hanno cantata loro stessi ma due o tre canzoni fa: maledetto tempo, maledetto mostro.