CategoriaPietro

Formalmente Pietro era mio padre.
Nella realtà fuori dalla forma, era un uomo che dipingeva e giocava – e molto bene – ad insegnarmi cose come: il tempo che ci vuole perché la pittura ad olio si asciughi, cosa fare di carta lucida e carta millimetrata, perché se pensi di scrivere o di disegnare devi scordarti la gomma da cancellare, come calare una mano buona a Scala40 o a Poker e quanto la musica sia la compagnia necessaria, l’unica mediazione possibile tra te e il mondo, soprattutto quando il mondo non ti sembra un gran bel posto. Io sono convinta che il lutto sia una specie di autocommiserazione prolungata, sapete (una volta ho letto che in Nuova Guinea c’è chi trita gli antenati, aggiunge la polvere ad una birra e alza il calice alla salute), e poi Pietro, di suo, non mi ha lasciato un motivo che fosse uno per essere davvero triste, anzi: ho una libreria – un ecosistema a parte, a dire la verità – e tutti i suoi fumetti e i suoi quadri e le sue poesie; ho parte della sua faccia sulla mia (il naso, il modo di ridere tanto mettendo la lingua tra i denti); milleuno ricordi belli tra cui scegliere quando mi prende male e la profonda gratitudine di aver avuto come padre un uomo che mi ha lasciato libera, sempre.
Qui trovate tante cose che lo riguardano, anzi, che ci riguardano. Sono felice se vi fanno simpatia, se attraverso le mie parole o le sue, Pietro Ferré ha ancora una possibilità di far sentire qualcuno meno solo o meno strano, amato tantissimo e senza che nessuno gli abbia insegnato come fare, come è successo con me.

A Pietro, per il suo compleanno

Dovevo aver scritto qualcosa su un quaderno che non trovo più, quindi non so da dove cominciare.
Io non ti ho mai regalato altro che: fogli, colori, pennelli e componenti per modellini in scala.
Gli ultimi fogli sono stati utilizzati solo in parte. E credo che nel tuo studio ci siano almeno una decina di barattoli Polycolor 3D destinati a seccare.
C’è anche un viaggio, di quelli contenuti in una scatola, una delle tante che non aprirai.
Non mi dispiaccio: non c’è un “non vissuto” nella tua vita che valga la pena di una lacrima, eh no, figurati: a cosa serve un weekend, te che per essere felice ti è sempre bastata mezz’ora, ma buona.
C’è solo una cosa che mi turba, e mi turbava già mesi fa, prima che le cose si mettessero a correre su una discesa che chissà dove porta: mi avevi chiesto altra musica. E io mica potevo dirti, guarda Bellino, la musica è qui, so qual è, ma ho una fottuta paura che tu t’accorga di non sentirci più tanto bene. Facciamo che te le canto io, le canzoni, che modulo la voce a seconda di come ti/ci senti stamattina.Facciamo così.

E allora facciamolo, che importa il resto. Che tanto lo sai come la penso, sull’amore o solo sui pensieri (“se io ti voglio bene, tu che c’entri?”). Facciamo che stacco una ad una queste cartoline musicali e te le mando, e non mi importa che tu le riceva davvero. Facciamo che stamattina io metto su il caffé e canticchio una delle tante canzoni con cui mi hai fatto il lavaggio del cervello, le parole e le cose da cui un altro m’avrebbe forse protetto, e gioco ad essere te, perché quello che ho adesso è sempre stato il tuo posto. Facciamo che non ci penso. Facciamo che stiamo ancora io e te, venerdì mattina e nient’altro da fare, prima che sia ora di pranzo, che una partita a scala 40. Facciamo che la gente, lo sai, tiene alla vita più a che a tutto il resto, e non la mette mai a confronto con le risate, la felicità, gli abbracci, i baci, le strette di mano, i pizzicotti, i buongiorno, i buonanotte, come fossero cose diverse, come se contassero solo i tempi.
Facciamo che tanti auguri, Pietro. Non me ne importa niente se ci sei o no, se è di cattivo gusto.
Facciamo che io il silenzio lo schifo. Facciamo che tieni, ti ho portato la musica.

Le Orme – Fine di un viaggio
Pierangelo Bertoli – Una Strada

Edoardo Bennato – Campi Flegrei
Francesco Guccini – Incontro
Francesco Guccini – Autogrill
Francesco Guccini – La locomotiva
Claudio Lolli-Borghesia
Francesco De Gregori – Renoir
Francesco De Gregori – La Casa Di Hilde
Lucio Dalla e Gianni Morandi – Vita
Lucio Battisti – Elena No
Lucio Battisti – La luce dell’est
Ivan Graziani – Il chitarrista
Ivan Graziani – Firenze
Fabrizio De André – Un Chimico

 

Scala

Hai confessato, stamattina. Hai detto che sì, tu con me ci giochi pure, ma non c’è sfizio.

Un modo per passare il tempo, hai detto.

Ti ho comprato un cornetto con la marmellata, perché sei come me, i cornetti solo marmellata.

Non hai rettificato.

Ti ho comprato un gratta e vinci.

Niente.

Ti ho pagato un caffé e una bottiglietta d’acqua.

Nisba.

Ho pensato che è colpa mia se ti annoi, ho pensato che ho sbagliato a lasciarti vincere stanotte. E pure ieri. E anche ieri l’altro.

– Con te vinco sempre, non c’è sfizio. Coi miei compagni sarebbe diverso.

Non ti ho detto: quali compagni.

Ho detto sì.

Non ti ho detto: – guarda bello, dovresti saperlo, io mi conto i punti che hai e calo le carte in maniera di perdere mano a mano, non pensare chissà che, un re di picche una volta, un jack la seconda, e poi scale che, ti dico, non ho fatto in tempo a mettere giù anche se erano lì pronte.

Perdo a poco a poco, almeno questo concedimelo. Ti lascio vincere poco a poco. Fossi in un altro momento della tua vita, caro mio, ti straccerei, altroché.

E dovresti pagarmi anche la colazione.

E le sigarette.

Perché fossi in un altro periodo della tua vita, ecco, io fumerei ancora.

Invece faccio la salutista indefessa che non sa calare una mano buona di Scala 40 e si fa fregare dal barista di un centro commerciale di provincia.

Non sei mia figlia, dici, e ridi.

Dico scusa, dici non fa niente.

Non ti spiego che mi vergogno non di darti noia, ma di pensare che almeno la partita con queste carte, quelle francesi, voglio che tu la vinca sempre.

Per questo sono disposta a scendere a compromessi, cosa che non faccio dall’età di anni 7.

Questo racconto è stato scritto sul blocco note di un cellulare in presa quasi diretta.

Il seguito lo trovate su Abbiamo Le Prove.

Il primo uomo con cui ho avuto a che fare

Il primo uomo con cui ho avuto a che fare è uno che qualche anno prima era stato fermato mentre faceva l’autostop a Firenze. L’avevano portato in caserma e gli avevano fatto tagliare barba e baffi perché così somigliava troppo ad un reazionario. Storie degli anni Settanta che mi facevano assai ridere: me lo vedevo, ritto davanti allo specchio a rasarsi e quelli sbalorditi di come una faccia può cambiare in dieci minuti.

Il primo uomo con cui ho avuto a che fare mi diceva spesso di non rompere le scatole mentre dipingeva. Ho chiesto: quali scatole? Io non ho rotto niente niente. E lui ha riso e mi ha fatto disegnare Poochie ballerina sulla sua tela, al posto della natura morta con teschi in cui si stava producendo. Si produceva in molti quadri metafisici, quest’uomo, e canticchiava mentre la sua donna stava male, i suoi lavori portavano la firma di un altro e una bambina imparava che la disoccupazione e l’inchiostro a china e le canzoni di Pierangelo Bertoli erano una specie di colpa universale, legate l’una all’altra come chiavi ad un anello chiamato, per brevità, “giovinezza”. Le chiavi non aprivano niente.

Ma quest’uomo, sapete, mi ha regalato una spilla con su una pin up innamorata. Sopra stava scritto: Susie’s got a boy. Io ho pianto perché volevo un altro regalo, volevo la pantera rosa, volevo barbie luce di stelle, volevo il dolceforno, ma lui ha spiegato: adesso sei piccola e non ti piace, ma se aspetti poi capisci. Quest’uomo, la prima volta che ha cucinato, non capiva questo fatto degli odori, così ha gettato nella passata di pomodoro tutto quello che aveva trovato nel cassetto basso del frigorifero: aglio e cipolla, prezzemolo, sedano, basilico, carote, tutto. Non volevo assolutamente toccare quella broda arancione ma lui si ostinava a dire che sì, quello era il mio pranzo. Ho preso a minacciarlo, a dirgli che un giorno sarebbe stato vecchio e avrei cucinato io per lui, le cose peggiori, topi e scarafaggi, e lui avrebbe dovuto mangiare perché comandavo io.

Lui ha detto: va bene; io ho pulito tutto il mio piatto.

Il giorno seguente ho imparato a cucinare.

Quest’uomo una volta ha scoperto, e aveva già quarant’anni, di avere un secondo nome: Felice. Abbiamo riso assai per questo fatto.

E al primo fidanzato con cui andavo a dividere una casa, diversi anni dopo, quest’uomo ha fatto la scuola su metodi contraccettivi. Il primo fidanzato stava tutto vergognoso e camminava affrettando il passo. Io ridevo trascinandomi la valigia dietro loro due.

Quest’uomo mi ha ripreso sempre quando parlavo in dialetto o quando strappavo una metà dal quaderno per scriverci una storia, ha comprato per me figurine di Holly Hobbie e in tempi decisamente più recenti Marlboro Gold.

Potremmo dire che ha un talento per la comicità, e infatti gli è sempre piaciuto: disporre mozzarella e prosciutto nei piatti in modo da disegnare una faccia sorridente; raccontare storie sconclusionate; dimenticare i nomi della gente con cui parla (mentre ci parla) o attribuirne altri di sua fantasia; fare scherzi un po’ crudeli tipo lasciarmi sola in un posto sconosciuto e uscire dal suo nascondiglio solo quando prendevo a strillare come un merlo indiano. Usciva ridendo, preoccupato nemmeno un poco, e io mi chiedevo forte che cazzo ci stava di divertente nell’abbandonare qualcuno, anche se per poco, anche se per gioco.

La risposta a questa domanda non è ancora venuta anche se ho delle idee in merito, del tipo: forse voleva dirmi che gli abbandoni sono una cosa che capita, come tutte le altre. Oppure che il problema è sempre di chi rimane, ma chi rimane ha il grosso vantaggio di potersela raccontare come vuole.

O che se ne può ridere sempre e comunque.

Non lo so, ma diciamo che mi fido.

Dopotutto è mio padre.

Questa storia è diventata un racconto per Abbiamo Le Prove.

Potete leggerla per intero  anche su Minima&Moralia.