Categoriasanta precaria

In attesa di Gutenberg

Sto aspettando Galassia Gutenberg come se da qui a una settimana dovesse cambiare tutto e pure i sacchetti di monnezza dovessero trovare una loro, definitiva, sistemazione, con buona pace mia e dei napoletani. Il fatto è che tra sette giorni sette avrò davanti agli occhi il mio editore, sempre se non mi nascondo prima per lo scuorno di non sapere cosa dire e fare. L’evento (l’incontro, non la mia sparizione volontaria) mi comporta già certe piccole paturnie, cose del tipo piastrarmi i capelli due volte al giorno e voler mettere ordine sulla scrivania del boss. La cosa si fa più seria se ci aggiungo una piccola variabile: tra sette giorni sette avrò davanti agli occhi il mio editore (respirare) e probabilmente avrò fra le mani la bozza definitiva impaginata del libro (inspirare). 

Cazzocazzocazzocazzo

Vado a piastrarmi i capelli.

Uscire dal precariato uscendo con il figlio di Berlusconi

Un paio di cose, sulla proposta di Berlusconi per uscire dal precariato:

Caro Berlusconi, tuo figlio è fidanzato. Ergo, ha già sistemato economicamente qualcun altro. Peccato. Nel caso si sfidanzasse, per favore, chiamami: sono sicura che accanto a lui riuscirei non solo ad appianare la mia spigolosa situazione pecuniaria, ma anche a trovare lavoro. Non solo moda? Si, grazie, può andare. Anche Verissimo, certo.

Come dici, tuo figlio piccolo? E’ troppo piccolo. Siamo fuori tempo anche qui, mi sa. Non c’è qualche cugino dell’età giusta? Non puoi, per caso, consigliare a tuo figlio la strada della poligamia?

La verità, caro Berlusconi, è che tu mi dici la stessa identica cosa che mi dice mia nonna quando vuole tagliare corto il discorso sulla mia occupazione: “il problema del lavoro è un problema al maschile”, dice sbucciando le patate come si conviene, credo, a qualunque brava donna. “Tu sei femmina – continua – devi solo trovare qualcuno che ti mantiene”.

Ora, io da mia nonna questo discorso posso accettarlo, perchè so che lei mi vuole bene, è stanca, mi indica forse la strada che le pare più semplice. Posso capire il suo punto di vista, perchè è il punto di vista di una donna di settant’anni che non può cambiare le cose e il modo di girare del mondo.

Adesso, sull’età, caro Berlusconi ci siamo pure  e potrei dunque prendere la tua proposta come un episodio di demenza. Ma sul tuo eventuale sentimento affettivo nei miei confronti, sul cambiare le cose no, perchè se io vado a votare, se per puro caso dovessi scegliere qualcuno a rappresentarmi, se decido di andare contro il mio sentimento irrazionale di starmene a casa o fare il primo giorno di mare, lo farò per tentare di modificare la chiavica in cui mi ritrovo, non per trovarmi un fidanzato miliardario.

Fosse così facile.

Vita precaria 2.0

Ieri si è concluso il corso di formazione a cui ho preso parte negli ultimi mesi: dovrei avere, a breve e previo esame, una nuova qualifica atta a testimoniare che sì, la mia professionalità è oggi multimediale: passa cioè da un medium all’altro senza per questo trovare pace. Alle volte, questa situazione, più che polivalente mi pare nomade, zingara e senza fissa dimora.

Ora, il problema più impellente è che ogni qual volta una condizione lavorativa o para-lavorativa non si stabilizza, mi trovo a dover fare i conti con la mia famiglia. Provate voi a dare in pasto ad una classica famiglia del sud il precariato: è come spruzzare acido sulla melassa. Passiamo, dunque, in rassegna le varie figure che potreste incontrare.

Mettete me, figlia venticinquenne che dopo circa 7 mesi di napoletanità e pulmann alle 6 e dieci di mattina e portafogli vuoto, torna a casa con la faccia devastata alla Johnny Rotten e quello che resta di un’autostima passata a ripetizione sotto un filobus (nel caso, il numero 201, piazza garibaldi -via medina). Fa il suo ingresso nel tinello e la prima parola che le viene rivolta è una dotta citazione da Eduardo: “uè, e tu cà staje?!”.

La figura 1, che di solito ha un rapporto di parentela subordinato, una zia, uno zio o giù di lì, di solito interviene chiedendo ora del vostro arrivo, tempo di permanenza in casa madre, orario di partenza. Sono domande che non possono essere evitate, perchè illico et immediate e l’unico modo che avrete per scampare alla persecuzione è quelle di dare davvero delle coordinate, anche fasulle. Non provate nemmeno lontanamente a perorare la vostra causa con il blablabla della precaria e del lavoro che non ci sta. Dopotutto siete stati voi a scegliere di fare il giornalista, mestiere che se non hai un contratto è una specie di hobby molto costoso tipo il tennis.

La figura 2, di solito nonna o nonno o comunque persona di una certa età viene a riappacificare gli animi, sedando sia voi precari che il parente subordinato che sta rischiando la morte per anatema. E lo farà con il classico metodo di una botta al circhio e una al circhione“: ma tu sei giovane – dirà, facendoti sentire momentaneamente salvo – ho visto che il negozio di scarpe che sta sul viale cerca una commessa, il padrone del negozio è un cugino di cummàgiuseppa, domani ti accompagno io e vedi che ti sistemi pure tu che il giornalismo è un mestiere senza pace di dio.

La figura 3, di solito diretto genitore, non parlerà: muto e silenzioso vi starà accanto per tutta la durata dell’interrogatorio cercando di darvi forza con lo sguardo determinato di Clark Kent prima della trasformazione. Salvo poi rinfacciarvi in qualche modo che non vi date abbastanza da fare e che, mentre aspettate che il vostro sogno si realizzi con un contratto a tempo superdeterminato, potete pure adattarvi a fare la pulizia delle scale del condominio che si pigliano quasi trenta euro, bei soldi.

Eppure, ciascuna di queste figure che potrebbero portare al suicidio metafisico un qualunque giovine disoccupato ha una giustificazione. Loro il precariato senza speranza non lo conosco: sono nate e cresciute in una realtà sì difficile, sì ostile, sì fertile di sogni da cartolina e arida di speranze come il sud italia ma che garantiva, almeno, se non le rose, il pane.

Pane garantito in anni come segretaria dello stesso studio pure se non sai appicciare manco il computer e per te microsoft word è il nome di una medicina per il mal di stomaco, pane garantito dalle emergenze che arrivano nel momento giusto a trasformare il tempo determinato in un tempo assoluto, continuo. Un tempo fatto di rinnovi anche se non si è capito bene cosa fai e cambi mansione ogni due mesi e fai corsi di aggiornamento clamorosamente in ritardo sul tuo di tempo. Un tempo fatto di passi avanti che se ti dai da fare, se fai davvero il tuo dovere, se attacchi il ciuccio dove vuole il padrone senza spiegare, senza dire, senza dare il tuo punto di vista se non esplicitamente richiesto, il posto si trova.

Mio nonno ha lavorato in un pastificio per quasi quarant’anni e per quasi quarant’anni ha avuto lo stesso posto, lo stesso ruolo, lo stesso reparto senza mai conoscere domeniche e giorni di festa. Non per questo era infelice; lo so quando lucida la targhetta di cavaliere del lavoro, quando ha i conti giusti a ottanta e passa anni. Io sono passata dalla cassa dei supermercati, dagli ortofrutta al banco salumi al reparto carni alla cronaca bianca nera marrò all’ufficio stampa di un’ente allo stage al corso di formazione e ritorno: per mio nonno la mia malattia non è la precarietà ma il non aver aderito completamente alla professione, il mio non aver indossato la cuffietta al banco della carne, il mio aver risposto a tono a tale dirigente, il mio chiedere troppo e comunque male, nell’ordine sbagliato: prima ancora del pane, le rose.

Perchè forse lo sbaglio sta lì: noi che sappiamo esattamente cosa vogliamo, noi che sognamo anche le clausole di un contratto, noi che abbiamo una sociologia alle spalle di belle parole a farci forti, noi che il pane ce l’ abbiamo sempre avuto e pure la nutella e la marmellata, noi che prima ancora di avere soldi nostri abbiamo già, noi che scendiamo a patti per la realizzazione di un sogno, per la firma a palchetto, e non di una reltà di un fisso mensile. A vederci Aristotele direbbe che abbiamo un logos retorico basato su una presunzione sbagliata: è il buon senso che ci difetta, a noi che non ci vendiamo perchè il prezzo non è quello giusto.