CategoriaOn Air

Pino Daniele e i giovani degli anni Ottanta a Napoli. Grazie. Assaje.

Che essere giovani negli anni Ottanta a Napoli doveva essere un serio rischio e una vera rottura di cazzo, ma c’era Pino Daniele, Massimo Troisi e tutti questi artisti meravigliosi a lavorare assieme senza dire palle stratosferiche sulla città.

Confesso. Sono affetta da romanticismo storico. O è solo che il passato ha il suo fascino e io non ne sono immune. Ma oggi che sono due anni senza Pino Daniele e senza che ‘na jurnata e sole basti a ripianare le cose, mi pare quasi normale. Infatti piove.

Qualche sera fa, dopo un po’ troppo Biancolella di Ischia, con alcuni amici ci chiedevamo quale sarebbe stato il miglior momento per essere giovani in questa città. Per ogni epoca avevamo pro e contro.

Gli anni Ottanta hanno stravinto. Per la musica, per il cinema. Per Pino Daniele, per Massimo Troisi. 

Certo, essere ragazzi allora aveva i suoi grandi problemi: i giovani morti per droga in Italia erano 208 nel 1980, 239 l’anno successivo al punto che Pansa, in un articolo per Epoca, titolo “Il Ventenne modello ’84”, scriveva: «Hai corso davvero un bel rischio, figlio mio che compi vent’anni». A Napoli la situazione era anche peggio: basti pensare che mentre io nascevo, nel gennaio 1983, Eduardo De Filippo visitava la redazione del Mattino e ad un tipografo che gli urlava «Maestro, adda passà ‘a nuttata», rispose: «Guagliò, qua adda passà ‘a jurnata. Vorrei sapere perché una sola generazione deve pagare sulla sua pelle gli errori e i ritardi da Crispi ad oggi». Sempre il Mattino, qualche mese dopo, scriveva: «10 ragazzi uccisi dall’eroina in 90 giorni. Il dramma di 30mila tossicodipendenti si consuma nell’immobilismo».

A Napoli moriva Ettore, 25 anni, trovato sotto un portico del chiostro di S. Anna dei Lombardi stretto in un sacco a pelo e restato per molti giorni senza nome. A Napoli il suicidio diventava per molti l’unica soluzione possibile. Quando si uccise un ventottenne di Secondigliano, ricaduto nel giro dopo la disintossicazione in Svizzera, i suoi familiari fecero scrivere sui manifesti «Pasquale si è tolto la vita per non drogarsi più».

Insomma, tra droga, disoccupazione a tassi altissimi, dismissione, criminalità e cataclismi come il terremoto e il colera, quelli che erano i giovani napoletani all’epoca forse non sapevano manco da quale parte voltarsi. Oppure sì.

Io immagino che quelli che ne sono in qualche modo usciti bene, quelli che ce l’hanno fatta anche se magari non se lo ricordano più ché il passare del tempo ha cambiato i termini di paragone, sono quelli che hanno trovato Pino Daniele. Non voglio ragionare in maniera semplicistica, ma, la mia convinzione è che proprio negli opachi anni Ottanta napoletani, gli anni del terremoto e delle fabbriche, della segregazione urbanistica, dei viceré, della droga, della crisi delle amministrazioni di sinistra e del pentapartito, della Nuova Camorra Organizzata, siano nati gli ultimi modelli narrativi e culturali buoni su questa città, importanti sia rispetto sia alla determinazione dell’immaginario collettivo che alla costruzione della coscienza civile dell’epoca e odierna.

Prendete le maleparole di Pino, dette non per colore ma per rabbia, prendete la sua insofferenza del sentirsi propinare ancora una volta ‘na tazzulella ‘e cafè invece di una mano concreta, prendete la Napoli carta sporca che nessuno conosce davvero o la storia di una transessuale e quella di una prostituta. Prendete tutte le paure di un popolo che cammina sott’’o muro, strette nel tuppo dei capelli neri di Donna Cuncetta, ecco: non sono una gran mano a trent’anni, quando  nun può capì e pure ‘e canzone te fanno fesso?

1420455877_pino_daniele_1600x605

Pino cantava una generazione intera, una città intera, senza alcuna distinzione di classe o quartieri. Dava voce alla paura di restare con gli occhi fissi sulle parole e sui palazzi vecchi, all’ansia maledetta di non ricordarsi più “si stevem’ bbuone cu’ ll’addore d”o cafè pe’ tutt’a casa”Diceva di chi si era rotto degli accomodamenti del potere e rispondeva con la pazzia di essersi “scassato ‘o cazz” . E più di tutto, a far grande lui e piccoli noi oggi, aveva la capacità di mettere in musica e, dunque, contribuire a diffondere, l’assenza di pregiudizi e di barriere. Non conosceva ostacoli neppure nella commistione dei linguaggi – a suo agio tra napoletano, italiano e inglese – e prima ancora, a 18 anni, componeva Napul’è, manifesto suo, della città e, durante uno dei periodi più neri – l’emergenza rifiuti del 2008 – di una possibile rinascita, per quanto non mancarono le polemiche (Pino Daniele appoggiò, infatti, l’iniziativa “Napoli non è una carta sporca” dell’allora ministro Stefania Prestigiacomo). Grazie a lui, anche chi non ne aveva il tempo e l’occasione, conosceva Fortunato che urla perché “tene ‘a rrobba bella”. E i mestieri più poveri e miseri, quelli di chi fatica a sera e chi fa ‘e cartune, trovavano dignità nella poesia. Anna arrivava davvero e ti insegnava che impegnarti in qualcosa è un modo per non essere più soli. E prima ancora che le tematiche LGBT avessero la giusta importanza, dal 1979, è Pino Daniele ad averci detto del  Buono Guaglione con un solo desiderio: chiamarsi Teresa.

E poi c’erano le collaborazioni.

C’era Massimo Troisi, Massimo Troisi da San Giorgio a Cremano.

massimo-troisi-su-napoli-e-i-napoletani

C’era Assaje, testo e musica di Pino, arrangiamenti di Tullio De Piscopo, voce di Lina Sastri, colonna sonora del film ”Mi manda Picone” di Nanni Loy, una commedia nerissima su una Napoli in cui tra criminali, camorristi e poveri cristi un operaio vestito della tuta blu dell’Italsider si dà fuoco (apparentemente) nella Sala dei Baroni, storica sede del Consiglio comunale di Napoli.

Insomma, non che oggi manchino gli artisti napoletani e/o le produzioni su Napoli, eh. Ma secondo me era più semplice, all’epoca, trovare in loro dei rinforzi positivi, umani e un po’ di sincerità, comprensibile ai più, non importa quanti anni hai e da quale classe sociale ti affacci al mondo.

Noi che Pino Daniele lo abbiamo imparato dai grandi quando ci voleva poco ad esser grandi sul serio (tipo 20 anni e il sorriso appena appena sicuro, l’aria appena appena strafottente) non possiamo sapere com’era averlo ragazzo, giovane uomo e artista che si sta facendo conoscere insieme ad altri come lui. Ma se non aspettiamo più che piova per conoscere la vita di una prostituta e sentirla messa in fila accanto alla nostra tanto l’aria s’adda cagna’, se sappiamo che ce sta chi ce penza mentre nuje jettammo ‘o sang’ dint’’e quartieri ‘a Sanità, che a chi ci dice umanità rispondiamo “ammore ammore ammore, che abbiamo avuto risposta persino a quel Quando, dovremmo ringraziarli, quei giovani degli anni Ottanta a Napoli.

Per 3 cose, essenzialmente:

  1. Esserne usciti vivi

  2. Ricordarselo ancora

  3. Averci passato Pino Daniele

È grazie a loro se oggi, diciamo, citandolo “puteva campa’ n’ato anno”. È grazie a loro che sappiamo che“chi è vivo è vivo, chi è muorto, è muorto”

La regola Bob Dylan

How many roads must a man walk down before you can call him a stronzetto? Cosa sarebbe successo se al posto dell’Accademia di Svezia ci fossimo stati noi e in luogo di Bob Dylan una qualsiasi delle nostre scuffiate. 

landscape-1466009906-bob-dylan

È capitato a tutti – perché è capitato, vi vedo – di fare la figura dell’Accademia di Sveziainsignire il Bob Dylan di turno di un’onorificenza importante e un credito di circa 900mila euro metaforiche: d’accordo, non abbiamo mai indetto una vera e propria conferenza dichiarando al mondo che Tal dei Tali rappresentava per noi il “creatore di una nuova poetica espressiva all’interno della tradizione”, ma abbiamo di sicuro chiamato gli amici e le amiche e parlato loro del rarissimo, meraviglioso esemplare d’essere umano che ha conquistato il nostro “Nobel alla Letteratura” davanti ad un aperitivo. Poi, forti dei pareri ricevuti – di solito tra gli amici serpeggiano pareri contrastanti – abbiamo deciso di comunicare al diretto interessato la nostra decisione, certi che l’avrebbe apprezzata che qui parliamo del Nobel, mica pizze e fichi.

La scena è più o meno questa. Per economia di pensiero, fate conto di essere a Stoccolma. Enjoy. 

– Allora, negli ultimi tempi ho pensato molto a Bob Dylan.
– Ah. Eh?
– E ho deciso di dargli il Nobel alla Letteratura.
– Ma sei sicura? Guarda che quello è un tipo strano, secondo me se la tira già anche troppo.
– Guarda, ci ho pensato assai. C’era anche Philip Roth…
– Esatto: Roth merita.
– Ma Bob mi piace proprio perché è un po’ scornoso, insomma… A Roth so che farebbe assai piacere, che se lo merita, che non mi deluderebbe, ma il mio cuore mi dice che Dylan è quello giusto.
– Scusa, e Murakami? No dico, Murakami? Dolce, gentile, con tutta quella filosofia giapponese e i gatti che spariscono: se vuoi fare una scelta controcorrente anche lui…
– Murakami è troppo new age. Ad uno così tu dici che hai avuto una brutta giornata in ufficio e quello ti risponde parlandoti di universi paralleli in cui in ufficio comandi tu ma non te ne ricordi.
– Già. Poi ogni volta che parla pare Buddha anche se ti sta dicendo del flipper a cui ha giocato quando aveva 20 anni.
– Una mia amica ha detto che è capace di chiamarti alle 4 di notte per dirti che ha i calzini spaiati e che vuole sapere se conosci la differenza tra senso e significato.
– Ua! Finisce che per togliertelo di cuollo devi sparire completamente, roba che manco “Chi l’ha visto” e Federica Sciarelli riescono a trovarti.
– E quindi la tua scelta è Dylan?
– Sì, ragazze, sono quasi sicura, cioè, come dire: Bob ha innovato la tradizione! Non era facile. Poi sembra sempre così posato e timido ma è anche un uomo impegnato, che rifiuta il sistema! Ha visto un neonato circondato dai lupi, ha visto un ramo nero che stillava sangue, ha visto una stanza piena d’uomini coi loro martelli sanguinanti!
– Ah, sì? Che film è?
– Sto parlando di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, idiota. Sei un po’ prevenuta, secondo me.
– No, assolutamente. E secondo te come la prende questa cosa che vuoi conferirgli il Nobel, è interessato?
– Mmm, non lo so: secondo me mai nessuno gli ha fatto pensare che potesse aspirare a tanto. Ma è il minimo per uno che ha scritto “Like a Rolling Stone”. Mi sento così su di giri al pensiero di lui in lacrime mentre gli dico: “Bob, quest’anno il Nobel sei tu, hai visto, non sei più una preta di mezzo alla via”.
– Secondo me se ne fuje.
– Perché dici così?
– Mai ascoltato “Just like a woman”?
– Sentite, basta, mi state distogliendo. Mo gli scrivo su Whatsapp e vediamo che dice. Aspettate la risposta con me, vero?
– Eh.
– Ti pareva.
– Facciamoci un altro giro, vah.

bob-dylan-2016

E dunque avete scritto al Bob Dylan del vostro cuore. Passano due minuti e niente: il telefono rimane muto. Senza farvi vedere dalle amiche, controllate che ci sia campo. C’è. Poi compare un segno. Anzi, due. La doppia spunta blu. 

– Non risponde?
– Mmmm. No.
– Che gli hai scritto?
– Allora, ve lo leggo: “Caro Bob, come stai? Spero tutto bene. Ti scrivo perché ho pensato spesso a te negli ultimi tempi, alle tue parole soprattutto. Mi hanno fatto sentire così ispirata, davvero: mi è parso stupendo che uno come te sia al mondo. Hai liberato la mia mente. E poi: nessuno più di te si è accanito contro il mito e si vede che ti diverti a spiazzare tutti. Insomma, io non so come dirtelo anche se credo tu abbia già capito: ho pensato che sarebbe bello vederci perché vorrei conferirti il Premio Nobel alla Letteratura del mio cuore”.
– Daaaaai, non puoi aver scritto così!
– Perché?
– Non glielo dovevi dire! Ma non lo sai come è fatto? Secondo me non dovevi nemmeno scrivergli: lo chiamavi, poi mettevi giù al terzo squillo, lui ti richiamava e tu dicevi qualcosa come “scusa, mi è partita una chiamata…Come stai?” e da lì in poi cominciavate a parlare, sondavi il terreno, capivi se era interessato senza esporti troppo.
– Uffa. Perché non l’hai detto prima?
– Vabbeh, dai, può darsi che non abbia campo lui.
– Ha visualizzato.
– E non ha risposto.
– Magari è impegnato o magari non sa cosa fare…Povero piccolo.
– Chiama il cameriere, vah.

Ad un certo punto, più o meno intorno alle due, il cameriere che vi ha portato 6 long island e tante olive viene pure a dirvi che è il momento di chiudere e di pagare il conto. Consci della figura di merda epocale, offrite voi per tutti. Lo fate a ragion veduta. Poi vi viene una grande idea.

– Ascoltate, perché non cercate di capire cosa ne pensa?
– Noi?
– Sì. Bob non è amico di tuo fratello?
– Ahà, ma mio fratello lo sai come la pensa…
– Niente ma. E tu, Bob Dylan non lavora con tua cugina?
– Sì, ma che faccio, chiedo a mia cugina perché Bob non ti risponde?
– No, no: quello che vi chiedo è solo cercare di capire se ha capito l’entità del Premio! Cosa ne pensa, insomma.
– Senti, tu sei l’Accademia di Svezia e ti sta già facendo mettere sotto ai piedi: ascolta una scema, chiama Roth: digli che ti sei sbagliata, che hai capito, che il Nobel lo dai a lui.
– No ragazzi, mo è un fatto di principio. E poi mi fido di Bob, ha un animo così sensibile.

bob-dylan-nobel-prize-literature-2

Passano due settimane. Frattanto vi siete fatti così tanti film e paranoie che David Lynch vi ha chiamato e chiesto se può prendere spunto per la nuova serie di Twin Peaks. Avete chiuso la telefonata in fretta e furia pensando qualcosa tipo: maronn’ chist’, se mi tiene occupata la linea e mi perdo Bob gli faccio vedere io Laura Palmer.  In ogni caso quei giorni vi sono stati utili. A cosa? Ma a ricordare, signori. Ad esempio quella volta che avete conferito il nobel a Harold Pinter, nel 2005, ma lui non è venuto a prenderselo perché era gravemente ammalato. O quella in cui avete scelto Elfriede Jelinek, 2004, che vi ha risposto di non essere adatto a farsi trascinare in pubblico (un po’ di agorafobia). Addirittura c’è stato quello che era terrorizzato di lasciare il suo paese perché poi non l’avrebbero lasciato rientrare: il dissidente sovietico Aleksandr Solzhenitsyn, nel 1970. Insomma, ci siete già rimasti male in passato ma poi le ragioni dei non-premiati vi hanno fatto capire, accettare e lasciare andare (una cosa molto, molto, Murakami, sì).

In ogni caso, il signor Dylan che pare non aver riconosciuto l’importanza della vostra onorificenza, ha ancora il suo fascino: quello del poeta maledetto, nel senso che è un poeta e voi gli lanciate le maledizioni in rima. Del resto ha sempre voluto seguire solo la propria strada e con lui le maniere forti non funzionano e non vi sentite di scrivergli: “Brutto stronzo, manco un grazie non sono interessato ciao, ma che sfaccimm’ “. Non vi risponderebbe comunque. No, voi, mentre gli amici ormai vi ridono appresso e fanno battutine sarcastiche sui social, avete iniziato a chiamarlo a telefono e lasciare messaggi in segreteria.

-“L’utente da lei chiamato non è raggiungibile. Stiamo trasferendo la chiamata alla segreteria”.
-Ehi Bob, Bob? Ci sei? Ehi, è il settimo messaggio che ti lascio, mi richiami?

-“L’utente da lei chiamato non è raggiungibile. Stiamo trasferendo la chiamata alla segreteria”. — Insomma, Bob! Anche se non vuoi il Nobel, va bene, posso capire, ma parliamone. Davvero, magari sono stata avventata, magari ti ho spaventato… Richiamami. Giuro che mi interessa sapere solo come stai.

Per quasi due settimane non avete nuove. Ad un certo punto vi scocciate e dopo un paio di spritz fate come  Wästberg, il presidente del Comitato per il Nobel alla Letteratura: dite agli amici che Bob Dylan è un grande, sì, ma è pure un gran maleducato arrogante! Subito dopo erompete in lacrime citando l’amico di Bob, tale Francesco de Gregori: la vostra faccia ricorda davvero il crollo di una diga. Controllate se avete il numero di De Gregori: magari può aiutarvi.

E poi, poi ecco il miracolo: Dylan vi richiama!

-Ragazzi, mi ha appena chiamato!
-Chi?
-Bob Dylan!
-Aaaah, ancora appresso a chist’ staje. ‘A faje cu’ l’ova ‘a trippa!
-Ma quanto sei stupido! Ha detto che è onorato!
-Sì, certo. Dopo 2 settimane. Si vede che era sconvolto e non sapeva articolare più suono e per dire due parole ha dovuto rivolgersi ad un logopedista.
-Sei politicamente scorretto. Davvero, mi deludi.
-Seh. E quando vi vedete?
-Beh, gli ho detto che il 10 dicembre c’è una festa, una cosa un po’ formale ma dai, è una festa, siamo sotto Natale, insomma, una cosa romantica… Ci facciamo una passeggiata a Djurgården, la luce bassa… Ah, sarà bellissimo…
-E lui che ha detto?
-E… in verità non ha risposto.
-Ossignore liberaci, n’ata vota?
-Aspettate, c’è una sua email! Miscredenti!
-Leggi, dai.
-Sì.

(dopo 20 minuti)

– Ehi? Allora? St’email che dice?
– Oh, no niente, ragazzi…
– Come niente.
– Dici che ha detto ‘stu strunzill, mo vado a prenderlo dove sta e gli dico “Oh, non si tratta così la mia amica Accademia di Svezia!”
– No, davvero, ragazzi, io… Io non so perché, perché sbaglio sempre, ogni volta è così, mai nessuno mi sostiene, sempre tutti scontenti delle mie scelte! Mica come mia sorella che è nel campo Scienza e nessuno le dice niente perché nessuno capisce un cazzo… A me sempre tutti a mettere bocca!
– Ma che c’entra mo’, dicci che ha detto Dylan!
– Ha detto che non viene.
– Ha detto che non viene?
– Sì. Ha detto che sta impegnato con il lavoro.
– Aspetta che chiedo a mia cugina. Hanno le date dei turni sul sito internet.
– Okay.

(dopo altri 20 minuti)

– Accademia, ci sei?
– Sto qua, dimmi tutto.
– Ehm. Ho parlato con mia cugina. Bob va in ferie il 24 novembre.
– Ah. Quindi non c’ha già una riunione importante a cui non può mancare?
– No. Ferie. Dal 24 in poi.
– Chiama Roth. Ascoltami.
– No, no, il premio va a Bob. Non è che uno non viene a ritirarlo e perde il Nobel perché lo si dà al primo che capita per il Konserthuset.
– Se se, pensala così tu: Roth non è il primo che capita e poi chiodo schiaccia chiodo è la strategia vincente!
– No, no, io devo riflettere, ecco. Se ne parlerà quando mi sarà passata.
– E cioè?
– L’anno prossimo.
– Come vuoi. Comunque c’è una lezione in tutto questo.
– Sì?
– Certo.
– Dimmela. Ti prego, ho bisogno di capire.
– L’anno prossimo chiama Murakami.
– Perché?
– È giapponese. In Giappone tengono assai alla forma, sono gentilissimi: secondo me con lui basta che gli scrivi “Ciao” ed è fatta!

haruki

Compiti per le vacanze

(io adoravo i compiti per le vacanze. li finivo nei primi tre giorni di nullafacenza. tutti, tranne quelli di matematica)

  • Leggere ancora una volta Scrivere zen di Natalie Goldberg e ricordare il titolo originale, molto più bello, Writing down the bones;
  • Mettere in valigia più di un libro (i miei sono: La brava terroristaRacconti londinesi di Doris Lessing e voglio prendere anche La femmina nuda di Elena Stancanelli);
  • Vedere almeno un’alba al mare;
  • Fare il bagno al tramonto senza la fretta di tornare a riva o a casa;
  • Dichiarare il sabato mattina patrimonio dell’umanità;
  • Prendere sane distanze da tutto ciò che si illumina, squilla o vibra;
  • Continuare a lavorare con gli occhi;
  • Non consumarsi le dita per gli altri;
  • Sapere apprezzare gli spazi bianchi;
  • Non scrivere per farsi amare;
  • Arrampicarsi su un sentiero che non si sa dove porta;
  • Scoprire un bel film, possibilmente in un cinema all’aperto;
  • Avere una maglietta di filo sulle spalle;
  • Nuotare tanto;
  • Scrivere ogni giorno su un quadernetto come stai, cosa sogni, cosa vuoi;
  • Correre ridendo;
  • Dimenticarsi la fretta;
  • Comprare una tela e un paio di tubetti di acrilici maimeri: anche se non dipingerai niente di particolare, solo per l’odore e il ricordo;
  • Sentire il profumo dei limoni, comprarne un po’ per fare il limoncello;
  • Fare la spesa in compagnia perché è più divertente;
  • Visitare un posto nuovo mai visto prima;
  • Parlare con chi non conosci;
  • Aspettare con fiducia di vedere una stella cadente e poi un’altra ancora;
  • Esprimere i desideri che hai;
  • Cucinare un piatto nuovo (personalmente la mia sfida sarà il pane con le noci e le marmellate);
  • Apparecchiare fuori e cenare lì;
  • Non far mai mancare il Biancolella in frigo;
  • Cercare sul giornale una bella notizia e complimentarsi con chi l’ha scritta;
  • Ascoltare buona musica;
  • Re-imparare ad andare in bicicletta;
  • Salutare con affetto ciò che non puoi cambiare;
  • Ribellarsi alla mediocrità dei sogni che si infrangono;
  • Se le cose si sfogliano come una cipolla facendoti un po’ piangere, sapere che servono anche così anzi è meglio;
  • Cantare le canzoni che sanno mettere pace tra te e il mondo (una delle mie è questa);
  • Abbracciare qualcuno che ricambi stringendo più forte;
  • Avere dei fiori sul tavolo;
  • Raccogliere sassi;
  • Spedire cartoline, anche se dovessi spedirle a te stesso;
  • Sottolineare le parole che non vuoi dimenticare;
  • Essere gentile con te stesso;
  • Ricordare che stai facendo il meglio che puoi;
  • Disegnare senza paura di sbagliare;
  • Fare domande solo a chi può rispondere guardandoti negli occhi;
  • Sognare insieme a chi ami;
  • Non affaticarti per essere felice;
  • Respirare;

nota personale e saluti estivi: 

Luglio è un mese faticoso. Tutti gli oroscopi che ho letto mi hanno detto che non era il caso. La maggior parte degli astrologi è del mio stesso segno zodiacale: ho avuto la conferma di essere nata sotto il segno dell’Acquario quando ho letto le loro previsioni. Prima, alle volte, pensavo di essermi sbagliata; adesso pare che il nostro sguardo si sia incrociato sopra quello degli altri. Lo sai, eh? – si dicono le nostre pupille –  Non me ne parlare, guarda. Considerate le ultime settimane, tonde e pesanti come il mondo sulle spalle di Atlante, potrei dire di me che sono in perfetta forma fisica e che quella che vedete non è scoliosi ma l’astuccio delle mie ali*.

E dunque, passo direttamente ad agosto: al paese mio dicono che “è capa ‘e ‘vierno”, è la testa dell’inverno, e io l’ho sempre trovata bella come frase: al di là di quello che ci leggo oggi, mi piace ricordarmi di quando significava solo che se andavo a San Donato a cercare di vedere le stelle cadenti dovevo portarmi il maglioncino di filo e sarebbe bastato a proteggermi dal vento e dalla scomodità di stare sdraiata col naso all’insù sul cofano di una fiat uno verde militare.

Da qualche anno  – non so se 4 o 5  o addirittura 6 – c’è sempre la stessa canzone a farmi compagnia. Questa:

In realtà è nel mio lettore sempre, ma in questi giorni la faccio suonare molto: come buon auspicio, esercizio concreto di memoria, o solo perché mi piace. La prima volta che l’ho ascoltata – era il 2011, e adesso abbiamo una certezza sugli anni passati da – ci ho scritto su, di botto, una dozzina di pagine di un romanzo che è uscito, poi, l’anno dopo. Ma ho ancora dubbi sulle parole di questa canzone. Il titolo, ad esempio: August is for city lovers. Significa che Agosto è il mese giusto per chi ama la città che adesso è vuota e piena di sole e sembra stare lì solo per loro, un’infinita domenica pomeriggio senza nessuno da vedere, nessuno da chiamare? Oppure la traduzione più esatta è che questi giorni caldi sono fatti apposta per chi si ama, in questa Napoli che brucia o altrove? Qui ci sarebbero, allora, molte persiane abbassate di pomeriggio, quando la luce è più forte.

Le parole, poi: io e R. le abbiamo cercate per tanto tempo, credo lei sia arrivata addirittura a scrivere agli autori mentre io cercavo di desumere dalla pronuncia per farmene almeno un’idea, ma non le abbiamo mai trovate. Mi piace pensare che il verso finale sia “time don’t talk for us” o qualcosa del genere; che ad un certo punto dica “let’s take what is left to give“; sono sicura che il cantante chieda “don’t you feel this pouring rain” o “please stay for just one more night”. Un giorno più dazed and confused di altri, io e R. arrivammo a proporci una versione di massima che potevamo cantare io e lei, tanto il pezzo è semisconosciuto quindi non avremmo dovuto fare i conti con nessun fan precisino. Da allora l’unica preoccupazione di queste due tizie che si ostinano a chiamarsi amiche e a crederci tanto, è stata non spaccarsi i denti con il collo della bottiglia usato come microfono come quella volta che cantavano i REM in un bar ed erano tanto tanto felici e propositive. 

Infine c’è una volta, una delle tante volte per cui ho parole che potrei anche non avere, camminavo su via Foria. Avevo lasciato una persona all’angolo, se non ricordo male, o davanti alla metro, non lo so più. Presi dalla borsa le mie cuffiette e mi lasciai canticchiarla da sola con le parole che mi ero inventata. Poco dopo ne inventai altre, le scrissi in un’email e la inviai.

Adesso, invece: ho finito il romanzo nuovo e ha un posto nella valigia che sto riempiendo pezzo pezzo. Troverete sicuro qualche mio articolo sul Mattino. E ci vediamo tra un po’ di settimane come si ritrovavano i compagni a scuola a settembre: con la faccia abbronzata, i capelli un po’ più lunghi e i libri nuovi ancora tutti da comprare.

*questa metafora non è mia, è di Erri de Luca in Montedidio 
**in copertina “The Stand” di Claire Elan