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Formalmente Pietro era mio padre.
Nella realtà fuori dalla forma, era un uomo che dipingeva e giocava – e molto bene – ad insegnarmi cose come: il tempo che ci vuole perché la pittura ad olio si asciughi, cosa fare di carta lucida e carta millimetrata, perché se pensi di scrivere o di disegnare devi scordarti la gomma da cancellare, come calare una mano buona a Scala40 o a Poker e quanto la musica sia la compagnia necessaria, l’unica mediazione possibile tra te e il mondo, soprattutto quando il mondo non ti sembra un gran bel posto. Io sono convinta che il lutto sia una specie di autocommiserazione prolungata, sapete (una volta ho letto che in Nuova Guinea c’è chi trita gli antenati, aggiunge la polvere ad una birra e alza il calice alla salute), e poi Pietro, di suo, non mi ha lasciato un motivo che fosse uno per essere davvero triste, anzi: ho una libreria – un ecosistema a parte, a dire la verità – e tutti i suoi fumetti e i suoi quadri e le sue poesie; ho parte della sua faccia sulla mia (il naso, il modo di ridere tanto mettendo la lingua tra i denti); milleuno ricordi belli tra cui scegliere quando mi prende male e la profonda gratitudine di aver avuto come padre un uomo che mi ha lasciato libera, sempre.
Qui trovate tante cose che lo riguardano, anzi, che ci riguardano. Sono felice se vi fanno simpatia, se attraverso le mie parole o le sue, Pietro Ferré ha ancora una possibilità di far sentire qualcuno meno solo o meno strano, amato tantissimo e senza che nessuno gli abbia insegnato come fare, come è successo con me.

Cosa c’entra la Famiglia Addams con la responsabilità delle proprie azioni

Secondo me l’infanzia è quel periodo della vita in cui puoi dare la colpa di qualcosa ad un altro senza che ci siano troppi problemi o rimostranze; di solito non c’è manco bisogno di cercarlo, quel qualcuno: si presenta di sua sponte con l’aria contrita e il gioco è fatto. Detto ciò, la mia infanzia è finita nel 1992, subito dopo l’uscita in Vhs della Famiglia Addams, quello con Christina Ricci che fa Mercoledì, per capirci.

Spiego: da bambina ero un esserino asociale esattamente come oggi che preferiva leggere i fumetti dell’Intrepido o guardare quel genere di film di cassetta che in un futuro non pronosticabile ma prossimo sarebbero stati catalogati con il bollino giallo che indica la necessità della presenza di un adulto a commentare le scene più cruente. L’adulto non era disponibile, credo sia utile dirlo, e se per i miei genitori era possibile giustificarne l’assenza, per la persona che pagavano come loro vice, tale Carmen la stronza, no.
Carmen la stronza adorava piazzarmi davanti al televisore, altroché.

Intanto lei faceva cose come lagnarsi a telefono con la sorella della fine del suo matrimonio, o prendere appuntamento con il parrucchiere e l’estetista o chiudersi in cucina a vedere Santa Barbara sul due. Insomma, la televisione, al cospetto di Carmen la stronza, era una figura autorevole, con una certa morale e di sicuro una tinta di capelli più accettabile.

Ma la storia di come la mia infanzia ebbe fine non ha a che fare propriamente con lei quanto con il mondo degli adulti in generale, e quindi non voglio attribuirle alcuna colpa se una sera di ottobre di venti e passa anni fa, per la prima volta ho capito cosa significa prendersi la responsabilità di un’azione.

Il fatto è questo: avevo tipo 9 anni e rompevo il cazzo con il film della Famiglia Addams. Al mio paese non c’era il cinema o forse i miei non avevano i soldi per portarmici, non lo so, di certo c’è che io perseguitai per mesi il cristiano del videonoleggio chiedendo lumi sull’uscita in vhs. E un giorno, alla mia richiesta lui rispose: “Ce l’abbiamo”. Quindi tutta gioiosa fittai l’oggetto dei miei desideri e me ne tornai a casa, mi piazzai davanti al televisore, e tadanbumsclash, lasciai cadere a terra la vhs che si ruppe in mille pezzi.

Al che mia madre uscì dalla cucina (quel giorno era presente), mi spiegò che avevo le mani di ricotta, e mi invitò a prendermi le mie responsabilità prima che tornasse mio padre e mi facesse prendere anche qualcos’altro. Dopodiché mi spinse a tornare al videonoleggio dove avrei spiegato l’accaduto. Mia madre, notate bene, non mi disse né che la situazione era risolvibile né che i master delle vhs si rimpiazzavano, no: lei* mi ha fatto uscire di casa pensando di aver rovinato per sempre la pellicola del film che volevo vedere da un anno e che molto probabilmente non avrei visto mai più, cosicché mi sono presa anche la cazziata – che in un secondo tempo avrei imparato a catalogare come “espressione di uomo cui sono stati rotti i coglioni” – del tizio del videonoleggio.

Tutto questo per dirvi che se ci sono riuscita io, appena infante, a capire che ognuno si prende le responsabilità delle proprie azioni e tenta di porvi riparo in qualche modo (ad esempio, io misi da parte i soldi per acquistare la videocassetta originale, mesi dopo, e imparare a memoria le battute) può riuscirci anche un uomo grande grosso e vaccinato, soprattutto se intende rappresentare lo Stato o una delle sue forme. Grazzie.

*che poi vorrei dire, c’avevo 9 anni, mamma, e noi abitavamo in un posto che era praticamente il bronx nella versione della provincia di Salerno, e tu mi mandavi sola al videonoleggio (ndr, mia madre legge il mio blog).

Gli uomini guardano i Mondiali come le donne guardano alla loro relazione

Una volta, a margine di una conversazione su quanto gli stavo simpatica – tantissimo, visto come andarono poi le cose -, un uomo mi chiese se mi piacesse il calcio o meno. Anzi, non me lo chiese: lui dava per assunto che la risposta fosse no e che potesse passare a spiegarmi e farmi scoprire lui per primo cose meravigliose come il fuorigioco.

Il discorso suonava più o meno così:

“Sei simpatica”
“Grazie”
“Scommetto che non ti piace il calcio”
“Seguivo le partite dell’Ebolitana nel passaggio da Eccellenza a serie D, piacere”

Fate voi il resto.

La verità è che ho dei ricordi piuttosto limpidi di partite, partitoni e campionati nazionali, ma di quelle celebrazioni calcistiche che sono i Mondiali o gli Europei non mi ricordo mai le singole giocate – sono troppe – ma le giocate mischiate alle cose che facevo nel mentre.

Per cui, nell’ordine, ricordo:

a) Me che mi innamoro di Gianfranco Zola. Era il 5 luglio 1994, avevo 11 anni, e Gianfri (eravamo in confidenza) coronava il suo sogno: esordio ai Mondiali di Calcio nel giorno del suo ventottesimo compleanno. Un arbitro, tale Brizio, nazionalità messicana, lo espelle per motivi ancora non comprensibili all’uomo e su cui esistono ancora serissimi dibattiti (sta prima il Terzo Segreto di Fatima, poi l’Allunaggio, e infine l’espulsione di Zola). Gianfranco, comunque, fa una cosa che lo rende il mio amore perduto di sempre: Gianfranco molla tutto e piange e si sbatte per terra e se la prende con oggetti inanimati e cerca di parlare a chiunque finche non vanno a riprenderselo dalla panchina. Qui nozioni aggiuntive sul come si piange e ci si sbatte e via dicendo, qui il video:

b) Mio padre che non so quale fissazione prende ma comincia a registrare tutte le partite degli Europei 1996. Fu capace di produrre una marea di vhs su cui poi, per anni, abbiamo registrato tutt’altro, per cui, a casa mia, se volevi vedere “Misery non deve morire” dovevi scegliere Spagna-Bulgaria, “Codice d’onore”,  Germania-Rep.Ceca, e così via;

c) Me che preparo una grossa caraffa di Karkadé freddo in un appartamento del Rione Alto nel giorno di Italia-Corea. Era l’anno del signore 2002 e ogni tanto alzavo gli occhi da un testo di Pedagogia dell’arte e percorrevo un corridoio lunghissimo a piedi scalzi, per sbirciare la partita in un salotto dove stavano bellamente stipati, un pianoforte, svariate stautette dei pastori del ‘700, due poltrone e un divano verde acido dalla stoffa molto pungente, un tavolo lunghissimo, il mio ragazzo dell’epoca, la sorella del mio ragazzo dell’epoca, le amiche del mio ragazzo dell’epoca, gli amici del mio ragazzo dell’epoca, l’altra coinquilina, la mamma dell’altra coinquilina, il mio padrone di casa, le figlie del mio padrone di casa, le amiche delle figlie del mio padrone di casa. Lowenfeld spiegava, essenzialmente, se era il caso di preoccuparsi quando un bambino, nel ritrarvi, vi disegna sei dita per mano e la capa di bomba; l’arbitro Moreno ci eliminava dalla competizione vedendo cose che non esistevano ben prima di essere arrestato per traffico di stupefacenti. Io confermavo la mia fama di asociale che che ci tiene a prendere almeno 28 in Pedagogia dell’arte, però prepara bevande e chiede a tutti se ne vogliono un po’, perché è una persona gentile;

d) Me che reincontro il mio ex ragazzo dell’epoca (sì, è lo stesso di cui sopra) il giorno della vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006. Quel giorno ho imparato che vedere uno che vi ha spezzato il cuore mentre esulta a tempo di po-po-po-po-po-pò su un auto che percorre il viale centrale della città può farvi venire voglia di cambiare non solo nazionalità e squadra ma anche indole, solo per avere una scusa buona per sfracassargli il setto nasale* a colpi di bottiglie di birra Peroni (questo in conformità con l’orgoglio nazionale)

(*mi sentivo molto Morrissey quando canta “And the pain was enough to make a shy, bald, buddhist reflect and plan a mass murder“, sì);

Conclusioni a margine ricavate da anni di esercizio di osservazione sul campo

1) Diffidate dell’uomo cui non piace il calcio o meglio, è molto più semplice se a lui piace il calcio, ma va bene anche un altro sport tipo il tennis, di seguito il perché;

2)Anche l’uomo più pacato e/o timido si produrrà in una serie di osservazioni decise e tecniche durante la competizione. In molti casi, la cosa è assai divertente. A fini conoscitivi, però, può anche dirvi come si relaziona con le critiche, le avversità e anche quanto e se pensa di essere gesucristo sceso in terra che, se ci fosse in campo lui, oh: saprebbe benissimo cosa fare! (il punto è che in campo lui non c’è);

3) Il tono è molto indicativo. Per esempio: ho sentito bestemmiare San Gaetano e il 7 di agosto da una persona la cui capacità di imprimere volontà su qualsiasi affermazione era pressocché nulla. Ciò ha migliorato di molto la considerazione che avevo di lui: di base, mi sono voltata e gli ho detto: “Allora sei umano!”;

4) Durante la finale Francia-Italia, Europei del 2000, accadde qualcosa, non ricordo cosa di preciso ma probabilmente il fatto che perdemmo 2 a 1, che mi lasciò intendere che molti uomini tengono al calcio come le donne tengono alla loro relazione, da cui:

5) Gli uomini che guardano le partite di calcio sono donne che guardano alla loro relazione.

Esempi pratici

Provate voi a dire ad un uomo che la sua squadra del cuore si è venduta il migliore attaccante, su, ve la faccio facile, provate a dire Pocho o Cavani a un tifoso del Napoli. Equivale, ancora oggi, a fare il nome di un ex grande amore. C’è chi la prende con filosofia, chi parte con una pippa sull’ineluttabile capitalismo del mondo calcistico, chi se la cava con una bestemmia. Ma lo sapete: ad avere Pocho o Cavani davanti, esploderebbero in lacrime sommesse tali da meritarsi il premio “Faccia che ricorda il crollo di una diga” di DeGregoriana memoria.

Provate voi a dire ad un uomo che la sua squadra del cuore si vende o si compra le partite. Su, ve la faccio facile, pensate a un tifoso della Juventus. È come dire a una donna felicemente accasata delle ripetutissime corna del marito (di cui probabilmente aveva già sentito parlare, ma fintanto che torna a casa, come dire).

In ogni caso, uomini e donne, conservano una parte pura di sé stessi che si esplicita in maniere differenti, ma ha la stessa radice: una fiducia quasi bambina nel come potrebbero andare le cose. Solo che gli uomini, per comodità, devono aver preferito relegarla nei 90minuti di competizione calcistica (che è più o meno il tempo giusto che dovrebbe durare un appuntamento).  Rompere questo incanto significa spezzargli il cuore (il cuore si spezza sempre, magari una volta ne viene meno un pezzo più grosso, un’altra più piccolo, ma la frantumazione è una costante). Per avere un’idea degli effetti di questo inconveniente, vi lascio questo video esplicativo: lo so, è Shakira che canta il Waka-waka. Ma provate ad immaginare cosa potrebbe succedere a dirle che Piqué le preferisce Bar Rafaeli o che c’è una foto piuttosto dibattuta con Ibrahimovic. Roba che sarebbe ben capace di rivoltarvi contro l’intero corpo di ballo a suon di Django eh eh, Django eh eh.


 

L’ultima luna

Non potevi mica scegliere. C’era. Un po’ come l’odore di acqua ragia o i fogli di compensato, le mattonelle sbrecciate in certi punti dal taglierino, e un particolare tipo di scotch, prodotto in serie dalla Pezzullo, bianco e blu, con i formati di pasta disegnati sulle bande. Tutte queste cose dicevano: quello che vedi non ha solo un giorno di vita.
Se casa è un posto qualunque dove vorresti tornare, allora quella era casa mia. Io che ero una bambina bionda di cinque anni con la frangetta tagliata storta da mia madre (me sulle punte, davanti allo specchio del bagno), facevo il gioco preferito del sabato: restare immobile davanti a mio padre che mi faceva il ritratto. Non ritraeva sempre me, no. Ero il modello preferito di proporzioni naso bocca occhi. Ero chiunque. E riuscivo a restare ferma impassibile statua per ore. Dalla cucina tutta azzurra (il calendario di Nostradamus dietro gli scuri del balcone) veniva odore di pasta e piselli e di quell’acqua di colonia che si usa per i bambini piccoli. Il bambino era, in questo caso, mia sorella, detta anche scimmia perché s’appendeva a tutto. Il resto erano stanze belle grandi e belle vuote che i miei non avevano granché da metterci dentro. Con Lucio Dalla tutto doveva apparire più tollerabile, immagino. Funzionava così: la musica era un buon indicatore del nostro stato d’animo: quando non la sentivi, meglio girare al largo.