Tagprecaria

Nemo propheta in patria

Stamattina hanno suonato alla porta. Era un’operatrice di non so quale compagnia telefonica. Ha i capelli piastrati, una cartelletta bianca in mano. Mi guarda da dietro gli occhiali da sole a goccia e fa: “Tieni il telefono?”. Faccio sì con la testa e lei segna qualcosa sul foglio. Preciso: “Si, ma tanto non serve a niente”. Mi guarda basita, con la penna a mezz’aria: “In che senso?” continua. “Nel senso che è inutile. Dovrei avere qualcuno da chiamare a telefono, per prima cosa” puntualizzo. Ho la faccia affranta, lo so. Ho finito di piangere due secondi fa davanti ad un comunicato stampa. Mi guarda ancora, poco convinta: “C’è un’offerta che allora può essere interessante perchè…” Apro le mani e alzo braccia, come se stessi dirigendo le ultime battute di un’orchestra: si ferma di botto. Ci guardiamo per un nanosecondo di pace cosmica. Lei mi sorride e le sorrido anch’io di riflesso, incerta dell’aspetto che ho, del mio pigiama, dei capelli legati e degli occhi rossi. Ma lei è sicura, adesso. Cambia foglio dalla cartelletta, riprende la penna. Apre la bocca lentamente e mi dice: “Stai cercando lavoro, vero?”

 

Mai Dai

Mi sono accorta d’esser diventata grande il giorno in cui ho smesso di desiderare il concerto del Primo Maggio. Non che l’abbia mai desiderato fortemente, eh, ma nel posto dove sono nata cresciuta pasciuta c’è sempre stato questo alone mistico intorno a chi, nel fatidico giorno, saliva su un treno per Roma. Il motivo credo abbia poco a che fare con la manifestazione di piazza San Giovanni e sia più strettamente legato al fatto che chiunque decida di partire dalla stazione del mio paese è un santo.

Quelli che tornavano, poi. La faccia distrutta da viveur e il discretissimo odore di fumo  sprigionato a mo’ di nuvoletta a ogni pié sospinto: ciò giustificava anche l’alone. Raccontavano storie varie di postegge e baci e accoppiamenti e slinguazzate perché dal primo maggio nascevano gli amori dell’estate, gli equivoci che tenevano banco per gli inciuci fino a settembre, cose del tipo “Luigi ha baciato Luisa pensando fosse Marta che è la sorella della sua ex Maria e se lo sa Giampiero li uccide”.

Gli amici di certi amici, poi, l’alone ce l’avevano da sempre. Stazionavano davanti a quello che all’epoca era l’unico bar con atmosfere semiquasirock del paese, non stavano seduti ai tavolini come si usa di solito, no. Non stavano nemmeno seduti al bancone, come pure mi pare si faccia normalmente. Loro stavano a terra, sui gradoni del locale, mollemente adagiati in gruppi di ottantacinque sull’unica provata panchina del posto, avevano una confidenza di luoghi e spazi, la strada era casa loro e in quest’ottica doveva sembrargli logico ostruire, di fatto, il passaggio a qualunque essere vivente. Nell’ultima settimana di aprile il traffico si faceva più intenso: il gruppetto si rimpolpava di visi e facce e bottiglie di birra tintinnanti e sigarette e canne.

Io avevo 15 anni, un jolly invicta, le felpe, le scarpette da ginnastica e il principio di curiosità classico per la varia umanità che si accalcava in poco più di 100 metri: c’erano i trentenni con la passione per il cinema francese e la fotografia b/n, l’attaccatura dei capelli che cominciava a farsi più rada; c’erano le ventenni fighissime tirate a lucido in pantaloni di pelle, il loro amore per la housemusic, Angels of Love. C’erano le adolescenti che come me, prima di me, avevano avuto faccia di cazzo abbastanza per andare a vedere questo mondo altro che si apriva fuori Porta Santa Caterina e prendeva l’autostrada.  Il mio ingresso nella società che include a fasi alterne non fu niente di che: l’età non mi permetteva che uscite pomeridiane durante le quali uno dei trentenni di cui sopra cercò di convincermi che:

  1. i cani mangiano la cioccolata;
  2. Werther non si era mai suicidato;
  3. Innuendo dei Queen non era poi gran cosa.

Capirete il mio odio.

Alla luce del palco montato nel centro di Roma, ho visto spuntare carte da 100mila per fare i biglietti del treno e balconcini di case fuorisede da cui forse possiamo vedere/sentire e genitori compiacenti che ci accompagnano con la Station Wagon e Marta e pure Cristina belle pronte a fare carte e pezzi di fumo grandi quanto tavolette di ritter sport da mettere nei caziettielli e nelle mutande così non ce li trova nessuno. Una delle adolescenti si accodò ad uno dei trentenni in partenza: un pastore tedesco amico del commissario Rex gli zompò addosso alla stazione di Napoli per tutta la roba che tenevano addosso. Suo padre si disse stupefatto. Mai quanto lei e il trentenne, suppongo.

L’anno dopo non so quale associazione decise che tutti noi gggiovani della cittadina avevamo diritto al concerto del Primo Maggio. Indi per cui nella piazza principale del paese fu sistemato un mega super schermo puntato su raitre. Il danno fu che per giorni, settimane, ogni qual volta ci si incontrava, alla domanda “Cos’hai fatto ultimamente?” bisognava rispondeva con aria vissuta: “Sai, sono stato a vedere il concertone” quando, invece, la frase corretta sarebbe stata “Sono stato a vedere il concertone in piazza della Repubblica”.

Così, forse per la mia incapacità di tollerare stronzate troppo a lungo, ho iniziato a dire, con un certo orgoglio, che no, non solo io non c’ero mai stata, ma non desideravo nemmeno andarci. Lo dichiaravo con aria annoiata, pronta a infervorarmi al momento giusto, e sentendomi, per la prima volta, ufficialmente, un outsider.  Le mie motivazioni non avevano il successo sperato: spiegare quanto mi dava ai nervi l’associazione di bandiere rosse + bandiere della pace + rock + dreadlocks + torso nudo + ragazze sulle spalle + postegge + speranze di accoppiamento + ombelico di fuori + folla oceanica uso mandria di bufali + più canne + più bottigliette di acqua e panini + presentatori + viaggio in treno dalla stazione del mio paese + ritorno + soldi che non ci stanno, non convinceva nessuno, e certe volte stancava anche me perchè erano cose che prese singolarmente, una per una, magari mi stavano anche bene.  Dopotutto ero sempre una quindicenne bionda che non sapeva dire bene che nel concerto del Primo Maggio, o forse nelle persone che vedeva parteciparvi, non riusciva a trovare che poche, pochissime corrispondenze con il tema del lavoro, della democrazia, delle prospettive di progresso sociale.

Il concertone, purtroppo, per come me lo raccontavano mi pareva una gita di quelle che si fanno per il ponte, oppure a scuola nello stesso periodo. E di queste uscite in pullman con tutta la classe, sarà una pecca ma io non ricordo il programma di viaggio di studio ma gli scherzi, l’ilarità, lo spacciare vodka al cocco per acqua e darlo da bere alla prima malcapitata, l’aspettare tale ragazzo all’uscita di tale albergo, fumando tale sigaretta con tale musica di sottofondo, come hai detto che si chiamava quella canzone?

Oggi il gruppo si è sfilacciato: alla birra e al fumo collettivi si sono aggiunte inclinazioni individualistiche come la bellezza della scrittura e l’utilizzo macchine fotografiche non digitali. Susan Sontag ci vedrebbe un bel po’ di implicazioni psicoanalitiche, io penso semplicemente che quando vivi nel sud del sud devi trovarti un minimo di occupazione se non vuoi fare la fine di Jack Torrance in Shining, quindi ben venga. Certo, il casino che sta sotto casa mia, non vi dico . In questo contesto, suppongo che il concertone del Primo Maggio rappresenti ancora una buona occupazione.

Raffa is burning

Essere una semiprecaria – quasidisoccupata oggi ha i suoi lati positivi: la febbre, ad esempio. Nel senso che io, da lavoratrice atipica, ero abituata ad andare a lavoro pure con la broncopolmonite e a recuperare ogni eventuale ora dedicata alla mia salute (fisica e mentale). Questa volta, fortunatamente, no. Sto buttata sul letto a quattro di bastoni. Probabilmente il virus si è reso conto di avere via libera e si è manifestato in tutta la sua potenza: febbre a 38 e mezzo, gola in fiamme, tonsille gonfie, dolori alle articolazioni come se avessi preso parte a una rissa alla Fight Club. Ergo, sto buttata sul letto a quattro di bastoni perchè non possiedo più la capacità di stare in posizione eretta. In questa fase di regressione ho imparato varie cose tra cui: 1)lo yogurt Mio a banana è buonissimo; 2)la canzone “Ti amo non ti amo” di Raffaella è bellissima; 3) il Velamox sa di menta; 4) mai e dico mai mettere i sandaletti aperti senza calze quando si muore di freddo che tanto pure Carrie Bradshaw lo faceva.

(in aggiornamento)

Ps: ho finito la correzzione delle bozze. Ma questa è un’altra storia.